I tappeti di segatura a Camaiore, in occasione del Corpus Domini, sono l’evento culturale che apre la stagione estiva Versiliese; l’apre, a mio avviso, con una concezione del tempo da non dimenticare.
Dalle 19:30 di sabato 21 giugno, i tappetari, carponi sul duro selciato o in equilibrio su assi di legno, si sono impegnati con setacci, pennelli e a volte a mani nude perché anche il più piccolo granello di segatura cadesse entro la linea dei pannelli di compensato traforati, un’operazione durata tutta la notte. Le 14 contrade di Camaiore si sono confrontate sul tema San Bernardino da Siena, la modernità del Santo e tutti, dai mastri più esperti ai piccoli scout, si sono impegnati al massimo per far rivivere nel presente questa antica tradizione.
Lo scontro con il pensiero moderno si poteva avvertire già oltre le transenne ai lati della via di Mezzo, lungo il brulichio affannoso di turisti: ‘domattina calpestano tutto, tanto lavoro per nulla’. Infatti, verso le 9 di mattina, la solenne processione, che affonda le radici nel 1400, è passata proprio su quei bellissimi ricami di polvere, disperdendoli al vento. E quel ‘per nulla’ echeggiava indistinto nei gesti concentratissimi e fermi degli artigiani a lavoro già dalla sera prima; quel nulla, tra l’altro, che ben si sposa con il materiale effimero di cui sono fatti i tappeti, di segatura a partire dagli anni 30 del ‘900, ma inaugurati sotto la dominazione spagnola dell’800, quando erano fatti di fiori.
Il Corpus Domini, per i meno pratici, è la celebrazione che ricorda la fede nella presenza di Cristo in carne ed ossa nel sacramento dell’eucarestia. Senza sollevare dibattiti sul mistero della fede, fatevi sfiorare un momento dal pensiero del dogma cristiano secondo il quale il figlio di Dio si è fatto carne, mortale, come noi, e come noi destinato alla polvere. Pensate per un momento a come crediamo di essere eterni nei nostri gesti, con l’illusione di servire a qualcosa. Spaventa, vero? Pensare che tutti i nostri più bei ricami, il nostro impegno, il tempo, la dedizione, siano soltanto passeggeri.
Tempo fa mi sono ritrovata a South Kensington in una domenica cominciata non proprio per il verso giusto. Mi si erano chiuse sul naso le porte della metro e avevo perso il treno e la gita organizzata con un gruppo di amici. Così ci siamo ritrovati a fare una chiacchierata in privato, io e Londra. Nelle mie lunghe peregrinazioni (non so voi, ma Londra è una città in cui amo perdermi), sono sbarcata nel cortile del museo di scienze naturali. Lì c’era, dritto in piedi proprio come l’albero davanti al cancello principale, un albero fossile, con dovuto cartello e spiegazione. Torreggiava, un po’ rossiccio e forse abbrustolito da una glaciazione, con pezzi di corteccia ancora indovinabili nel suo profilo vagamente nodoso. Si vedeva che quella roba lì, un tempo, era stata viva, e lo era stata in un tempo del tutto inimmaginabile: circa 300 milioni di anni fa, prima dei primi dinosauri.
Tralasciando la secolare schermaglia fra le teorie Darwiniane e la Genesi, il punto è che davanti a quell’albero di pietra e a creazioni come i tappeti di segatura, abbiamo la stessa reazione. Ci chiediamo: allora, a che serve? A che serve tanto sbatty se poi, nella migliore delle ipotesi, finiremo, tra un fantastilione di anni, rinsecchiti come mummie nelle vetrine futuristiche di qualche museo, con tanto di cartellino Homo (poco) sapiens, secolo XXI?
La risposta, per quanto non sia una vera e propria risposta, ma uno stile di vita, sta nei discorsi di un signore greco del IV secolo avanti Cristo. Anche lui antico e asfaltato, dite voi. Peccato che questo inguaribile pensatore fosse Aristotele e sostenesse che la cosa più importante nella vita dell’uomo lo è proprio perché non serve a nulla. Cioè non è serva di nulla, è un’espressione libera e gratuita della nostra natura.
Per Aristotele, questa cosa è la filosofia. Io non so che cos’è: la fede, la conoscenza, l’amore, fate voi. Ma quello che è più importante e che noi tutti sentiamo (anche se davanti ai tappeti di segatura proviamo un po’ di fastidio per tanto lavoro tecnicamente destinato a scomparire) è che quelle cose lì, quelle fatte per nulla, non scompaiono del tutto. E vanno oltre le vetrine e il cartello di un museo.
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