Da oltre trent’anni la Compagnia della Fortezza guidata da Armando Punzo riesce a coinvolgere e stupire il pubblico proponendo ogni volta un teatro fisico, immaginario e visionario, frutto di una continua ricerca poetica che supera il teatro di narrazione.
Lo spettacolo Naturae- overture è stato rappresentato come primo studio all’interno del carcere di Volterra dalla Compagnia della Fortezza, composta da detenuti-attori e collaboratori di Punzo, dal 30 luglio al 3 agosto. Esso rientra nel progetto triennale dei #trentannidifortezza iniziato nel 2018 con una serie di incontri, ricerche e studi, che mostrano la permeabilità del teatro a ogni forma di contaminazione artistica, visiva, letteraria e poetica.
Durante la scena finale dello spettacolo Dopo la tempesta, realizzato nel 2016, i protagonisti Lui e Il Bambino, voltano le spalle a uno scenario proposto da Shakespeare nel quale l’umanità, costellata di intrighi e tradimenti, abita un mondo ormai in frantumi. Seguendo le orme di Jorge Luis Borges con Beatitudo, spettacolo presentato nel 2018, i due protagonisti intraprendono un viaggio incontrando personaggi onirici e immaginari, come Funes “che vuole liberarsi della sua memoria sterminata e rinominare il mondo”.
Dove andranno ora Lui e Il Bambino?
Questa è la domanda a cui tutto lo spettacolo tenta di dare una risposta. Tra mistero, attesa e curiosità varchiamo i cancelli per entrare nel cortile “dell’ora d’aria” ed improvvisamente tutta la diffidenza e il timore iniziale si annullano, diventando “trasparenti”, come ha affermato lo stesso Punzo. Le possenti mura medievali, gli austeri cancelli e le guardie armate sfumano davanti alla potenza degli attori che, in quel momento, mettono loro stessi a nudo al completo servizio del teatro.
Ciò che noi vediamo, infatti, sono un ventaglio di uomini che, in quel breve lasso di tempo, trasmettono la loro profonda ricerca di un altrove, un luogo dove tutto si azzera, una tabula rasa, come il telo bianco che ricopre il cortile centrale sopra il quale riscrivere un nuovo mondo.
Esiste un altrove?
Lui- Punzo- e Il Bambino iniziano il viaggio, tra entità eteree, samurai e figure con singolari copricapi a forma di caravelle. La ricerca di un altrove è solo in apparenza privo di rimandi alla realtà, ma carico di simboli e suggestioni provenienti dalla Bibbia, fino ai Vangeli, passando per l’antica Grecia e, come scritto da Punzo, dal Verbo degli Uccelli del poeta persiano Farid Din Attar.
L’elemento protagonista che campeggia sulla scenografia fin dall’inizio è la mela rossa, posta al centro del cortile. Il lento strisciare di Punzo verso di essa, il morso sospettoso e poi avido, riporta alla mente la storia del peccato originale biblico, quell’atto di disobbedienza umana verso Dio per il libero arbitrio.
In quale altro modo poteva aprirsi questo viaggio se non con la negazione e la trasgressione delle regole appartenenti a una realtà conosciuta?
Queste nuove entità che incontra Lui, portano con sé nuovi germogli di vita, come scrisse il poeta Kahlil Gibran
“la civiltà ebbe inizio quando per la prima volta l’uomo scavò la terra e vi gettò un seme”.
Ed è proprio la natura che, in diverse forme, entra nello spettacolo, dalle piantine custodite tra le mani degli attori che eseguono lente camminate disegnando nello spazio linee ed infiniti, al canto degli uccelli che, insieme alle musiche originali ed i tamburi suonati dal vivo, accentuano l’idea del compimento di un rito di passaggio, verso un nuovo mondo.
Il sale è l’elemento protagonista della seconda parte dello spettacolo. Granelli di sale, bianchi e puri, sommergono gli attori immobilizzandoli nelle strette celle d’isolamento ormai cadute in disuso o ne disegnano i contorni seguendo le linee dei corpi che giacciono sopra teli neri.
Il passato e il presente si fondono ciclicamente ed il Figlio del Creatore del mondo che noi conosciamo, personificato qui da un’attrice distesa sopra un tavolo, è ormai deposto e velato da un sudario inumidito da Lui, come quel magnifico Cristo Velato scolpito da Giuseppe Sanmartino (1753) e conservato nella Cappella di Sansevero a Napoli. Se da un lato il Salvatore giace inerme, dall’altro troviamo un novello Pigmalione che, davanti all’altare della Cappella cristiana, modella una statua in argilla di un atleta, mentre una donna con un soprabito rosso, cammina lenta nello spazio come una moderna Afrodite evocata dal sogno di Lui, sdraiato al suolo davanti a una spirale di mele rosse.
Non è un caso che l’immagine scelta per promuovere lo spettacolo sia l’Ammonite, una conchiglia fossile utilizzata anche come “fossile guida” per datare le rocce. La natura guida le trame dello spettacolo che trova la sua forma nella spirale, quella linea che si avvolge su sé stessa e che rappresenta il ciclo della vita. Tutto l’Universo sembra muoversi a spirale, dal DNA umano agli ammassi galattici che costituiscono l’Universo, dalle nubi interstellari alla rotazione dei pianeti e delle stelle, fino alla stessa conchiglia fossile. Un simbolo dunque di rigenerazione, creazione e speranza che viene disegnato nello spazio per tutto lo spettacolo.
Tra i corpi immersi nel sale si erge una scultura: una grande mano, che ricorda le installazioni di Lorenzo Quinn a Venezia, posta ad accentuare l’idea che attraverso il tocco tutto può essere plasmato, lavorato, creato e distrutto.
Molteplici sono state le suggestioni che questo spettacolo ha evocato nel pubblico. Ognuno con il proprio vissuto alle spalle è stato coinvolto e travolto da una tempesta di immagini che hanno provocato numerose sensazioni ed emozioni. Sarebbe riduttivo scrivere “lo spettacolo è..” perché la sua bellezza risiede proprio nel suo essere indefinito, nelle parole cariche di speranza sussurrate e rivolte a un’entità altra rispetto a noi, che muove i fili dei nostri destini o semplicemente dirette alle nostre anime, là dove risiede l’io più intimo. L’altrove.
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