L’ultimo spettacolo della stagione di prosa della “Fondazione Teatro Goldoni” ha visto la riproposizione di “10 piccoli indiani…e non rimase nessuno! ”, uno dei romanzi gialli più universalmente conosciuti e più venduti di Agatha Christie. Scritto nel 1936 e pubblicato nel 1939, è considerato il capolavoro della scrittrice britannica, tanto che anche la cinematografia vi è piena di rimandi. E in effetti è una trama molto fitta e intrecciata, che si presta ottimamente allo schermo, piccolo o grande che sia. Il teatro dal canto suo rischia di risentire della vastità e complessità della struttura e del continuo accavallarsi di vicende, spazi e personaggi: solo un lavoro registico, scenico e scenografico efficace potrebbe effettivamente spazzare via questo pericolo e far funzionare il racconto anche sul palcoscenico.
Storia che si ambienta nel 1939 su un’isola deserta. Un paradiso refrigerante, un non-luogo che si contrappone all’aria pesante e minacciosa che si respirava in Europa a quel tempo. Vi sono invitati per vari motivi dieci sconosciuti, tutti apparentemente diversi ma sostanzialmente simili tra loro, come fossero i protagonisti di un surreale reality show. Arrivati nelle camere, trovano affissa agli specchi una poesia, Dieci piccoli indiani. La filastrocca parla di come muoiono, uno dopo l’altro, tutti e dieci gli indiani. Una serie di morti inspiegabili e avvolte nel mistero. Una sorpresa inquietante, dalle tinte macabre, che accomuna tutti e dieci gli sprovveduti personaggi. Inizia così un gioco al massacro fatto di tensioni, accuse e incapacità di comunicare. A cui poi si aggiungono angoscia, psicosi e totale perdita di controllo: quello che ha predetto la filastrocca si avvera. Ciascuno inizia a morire, ucciso nella maniera più casuale da non si sa chi. E guarda caso le modalità con cui i personaggi finiscono vittime del gioco sono le stesse che vengono così ingenuamente raccontate nella filastrocca, che scandisce con delle agghiaccianti rime l’inesorabile e crudele destino dei dieci inermi ospiti. L’esito scioccante a cui arrivano è che l’assassino si nasconde tra loro: chiunque sospetta di qualcuno ma nessuno sa chi davvero sia. Solo quando ne rimangono due pare che si riveli finalmente il vero artefice di questo meccanismo perverso: l’ultimo personaggio rimasto in gioco crede di farsi giustizia da solo uccidendo l’altro superstite. Ma anche il presunto assassino è vittima: il finale annunciato dalla filastrocca non lascia scampo a nessuno.
E il fatto che l’eco dei dieci racconti sia dettata da un’angosciante e apparentemente innocente voce infantile rende ancora più alienante e delirante la situazione che stanno vivendo le dieci vittime sacrificali. E’ l’annuncio del giudice supremo, l’efferato giustiziere che dopo aver passato in rassegna con una voce gonfia e potente i gravi episodi di cui tutti sono stati protagonisti, li dichiara colpevoli senza possibilità di fuga o di salvezza. La loro condanna a morte è appena iniziata. Dopo un momento di tregua apparente su questa isola-tribunale, dove i “dieci piccoli indiani” hanno giusto il tempo di realizzare quello che sta accadendo e provare a immaginare quello che succederà di lì a poco, il giudice invisibile ritorna come un fantasma e lascia che sia la magica e crudele filastrocca dettata dalla voce sinistra e ritmata di un bambino a decidere la morte dei poveri sciagurati, trasformando la paradisiaca isola nella prigione degli orrori.
Una storia che ci viene restituita in veste Art-Decò, con i colori bianco e nero e l’estetica tipica degli anni 40. Sullo sfondo appaiono i versi della filastrocca, che si illuminano di una fortissima luce al neon quando vengono richiamati. La regia è firmata da Ricard Reguant, che ha riscosso un enorme successo a Madrid e a Barcellona con questa produzione composta da dieci protagonisti della scena teatrale italiana. Sua la scelta di ambientare la storia in un ipotetico piano bar, in uno stile sospeso tra la volontà di renderlo retrò in linea con i tempi di quel momento e qualche reminescenza postmoderna. Uno spazio abbastanza ampio, che però rischia di far svanire l’effetto di claustrofobia che stanno vivendo o almeno dovrebbero vivere i personaggi. Botta e risposta, conflitti, baci rubati e risse sfiorate in un plot drammaturgico ricco di colpi e incastri ma che si permette troppo spesso di rallentare e abbassare la tensione.
Tutti professionisti solidi, eleganti e sicuri di sé questi dieci personaggi. Tutti a ostentare la propria dignità e la solida posizione sociale cui appartengono. E’ la classe che in quegli anni di razzismi, divisioni sociali e controlli inauditi di potere si faceva forza nei confronti dei più deboli. Con questa storia Agatha Christie ha voluto invertire la rotta: dal preciso momento in cui sbarcano sull’isola la loro solidità viene messa in discussione lasciando spazio a paure e fragilità. Tutti si professano innocenti ma tutti sono creduti presunti assassini. Viene creato un bivio molto sottile tra colpa e innocenza: loro non sono i veri artefici del gioco, così come non sono i diretti artefici della Storia e degli sciagurati meccanismi di potere di quel tempo; ma sono creduti colpevoli perché indirettamente lo sono, non hanno fatto niente per evitare il male stando attenti cinicamente al loro bene e sbranandosi per sopravvivere. Ma la Giustizia gliela farà pagare. E’ la stessa Agatha Christie che col suo genio si vendica di coloro che appartengono alla sua stessa classe sociale, ma di cui nutre un odio profondo e insanabile.
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