21 Novembre 2024

Pochi giorni fa, dopo oltre tre anni di combattimenti quotidiani, l’assedio di Deir Ez-Zor, capoluogo dell’omonimo governatorato siriano, è stato finalmente spezzato.

La città, di rilevanza strategica fondamentale, poiché situata nel bel mezzo della regione più ricca di petrolio del Paese, era rimasta completamente isolata fin dal lontano 2014, quando i miliziani dello Stato Islamico, dilagando nella Siria settentrionale, erano riusciti ad impadronirsi della sponda orientale dell’Eufrate, relegando le truppe lealiste su quella opposta. Tutt’intorno, a perdita d’occhio, il deserto, anch’esso controllato dagli uomini del Califfato, con l’insediamento alleato più vicino distante centinaia di chilometri.


Da allora, circa cinquemila soldati siriani, perlopiù paracadutisti della Guardia Repubblicana, guidati dal comandante di quest’ultima in persona, il generale druso Issam Zahreddine, nonché almeno centomila civili sono rimasti in vita solo grazie alla capacità di ricevere rifornimenti dell’aeroporto militare, rimasto per tutto il tempo, nonostante costituisse il bersaglio principale dei terroristi, nelle mani delle forze fedeli al raìs.

Nel luglio di quest’anno, poi, mentre Raqqa, la capitale dello Stato Islamico, veniva definitivamente circondata dalle Forze Democratiche Siriane, guidate dagli YPG curdi, il regime di Bashar Al-Assad ha lanciato la sua controffensiva finale, volta a riprendere il controllo delle ultime porzioni di territorio siriano ancora nelle mani dell’Isis.

Seguendo tre direttrici d’avanzata, aventi origine rispettivamente dal confine sud-est del governatorato di Aleppo, da Palmira e dalla regione di Hama, le eterogenee forze lealiste, composte da reparti regolari come le Unità Tigre e il Quinto Corpo d’Armata, da paramilitari sciiti libanesi ed iracheni e perfino da elementi tribali locali come il clan degli Al-Shaitat, sono riuscite ad avanzare molto velocemente attraverso il deserto, riconquistando dapprima la strategica località di Sukhnah e, subito dopo, intrappolando in due sacche diverse migliaia di terroristi.

La più grande di queste ultime, situata a nord di Palmira, è stata ripulita, mentre l’altra, sempre più ristretta e localizzata più ad ovest, dovrebbe cadere nelle prossime ore, permettendo al regime di Damasco di trasferire un maggior numero unità di prima linea nel settore più caldo del fronte, sulle rive dell’Eufrate.

Proprio nei pressi del grande fiume, come accennato, si trova Deir Ez-Zor, nella cui direzione si sono lanciati, subito dopo aver messo in sicurezza le linee di rifornimento attraverso il deserto e con l’appoggio decisivo delle forze aeree russe, i reparti speciali delle Unità Tigre, i quali hanno raggiunto la periferia dell’abitato alle due del pomeriggio del cinque settembre, accolti dalle grida di giubilo della popolazione civile e dei militari sopravvissuti.

Questo successo, atteso da anni, avrà un ruolo fondamentale per il prosieguo del conflitto e per le sorti dello stesso regime di Assad, come dimostra il fatto che, nelle ore immediatamente successive, la televisione di Stato siriana ha iniziato a trasmettere un video, dal sapore fortemente propagandistico, nel quale il sopracitato generale Zahreddine coordinava telefonicamente la rottura dell’assedio insieme al suo omologo delle Unità Tigre.


Nel frattempo, a nord-ovest, altre forze lealiste stanno tentando di avanzare lungo il corso dell’Eufrate, ma, in questo momento, non riescono ad avere la meglio sulla accanita resistenza dei combattenti islamisti, attestati nella cittadina semidistrutta di Maadan.

 

Con la riconquista di Deir Ez-Zor e con l’imminente caduta di Raqqa per mano dei curdi, la fase statuale dello Stato Islamico, già terminata in Iraq con la battaglia di Mosul, si avvia verso la conclusione, così come l’intera Guerra Civile Siriana.

Nel nord-ovest e nel sud del Paese, giova ricordarlo, vige da alcuni mesi una tregua tra i ribelli e il governo, mediata da Stati Uniti e Russia, ma l’impressione è che, debellato l’Isis, si renderanno necessari nuovi e ben più difficili colloqui di pace.

Allo stato attuale, infatti, la Siria rimane divisa in diverse zone di influenza politico-militare:

  • A sud, un’area approssimativamente corrispondente alla regione di Daraa è sotto il controllo delle ultime fazioni laiche o islamiche moderate della ribellione, armate e supportate dalla Giordania e dagli Stati Uniti.
  • A nord-ovest, il governatorato di Idlib è occupato, ormai da oltre due anni, da un coacervo di milizie islamiste, egemonizzate dai qaedisti di Tahrir Al-Sham, la vecchia Al-Nusra, le quali, un tempo, costituivano l’Esercito della Conquista. Nonostante liti e dissidi interni, che talvolta hanno portato a veri e propri scontri armati, il cartello jihadista, formato anche da Ahrar Al-Sham e da Jaysh Al-Islam, continua a reggere, soprattutto grazie ai buoni uffici dell’Arabia Saudita.
  • Tutto il nord-est del Paese è ormai unificato nel Rojava, il Kurdistan siriano autonomo, le cui truppe si sono spinte ben più a sud delle zone tradizionalmente abitate dai curdi, occupando anche città arabe come la stessa Raqqa. Il cantone di Afrin, tuttavia, situato all’estremo nord-ovest del Paese, è separato dagli altri due da un’enclave turca che si estende sul trangolo Azaz-Jarabulus-Al Bab. Per spostarsi da un’area all’altra del Rojava, perciò, i curdi sono costretti a passare da sud, attraversando zone sotto il controllo governativo.
  • Il resto della Siria, ivi comprese le maggiori città, le regioni più popolate, la costa e, ormai, quasi tutto il deserto, è nelle mani del regime, sostenuto dalla Russia e dall’Iran.

 

Se, da un lato, risulta evidente come il vero vincitore di questa guerra, giunta al suo sesto anno di ostilità, sia proprio l’Iran, il quale è riuscito a stabilire una linea di continuità territoriale tra Teheran e il Libano, lo stesso non si può dire, dall’altro, delle monarchie del Golfo, sconfitte su tutta la linea.

La Russia, d’altronde, ha raggiunto da più di un anno il proprio scopo principale, consistente nel mantenere attive le basi militari di Latakia e di Tartus, mentre gli Stati Uniti, pur avendo fallito l’obiettivo iniziale di deporre Assad, dovrebbero accontentarsi dell’area al confine giordano e del Rojava.

Resta in dubbio, però, la posizione della Turchia. Il presidente Erdogan non accetterà mai l’esistenza di un Kurdistan autonomo, ma non potrà neppure trascurare il fatto che l’entità confederale curda sia protetta, in quanto politicamente e militarmente affidabile, dagli americani e, in seconda battuta, anche dai russi.

Ecco perché, a parere di chi scrive, il vero oggetto del contendere, in sede di negoziato, sarà il governatorato di Idlib.

Assodato che la Turchia non rinuncerà alla sua enclave nel nord, onde scongiurare quantomeno la continuità territoriale diretta del Rojava, le zone controllate da Tahrir Al-Sham e dalle altre milizie islamiste costituiscono un baluardo sunnita dall’importanza strategica fondamentale, soprattutto perché, di fatto, sono una pistola puntata contro Latakia, centro nevralgico del potere alawita che fa capo al raìs.

È verosimile che quest’ultimo non tolleri la sopravvivenza di questo Stato Islamico in miniatura, ma è bene ricordare che il suo potere contrattuale sia, in verità, pressoché inesistente. Tutto dipenderà dalla volontà di Putin, protettore di Assad, e dell’Iran, il quale controlla sul campo, direttamente e indirettamente, tra i quindicimila e i ventimila uomini.

Entrambi hanno già raggiunto i loro obiettivi strategici e, per questo, non è così scontato che mettano pressione ad Erdogan affinché abbandoni l’enclave di Idlib al suo destino, consentendo al raìs di Damasco di riconquistarla e di mantenere, così, la sua promessa di riprendersi (quasi) tutta la Siria “shibr shibr”, pollice per pollice.

 

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