Quando un Movimento politico nasce dal nulla c’è sempre da aspettarsi una scalata eclatante fatta di slogan forti e battaglie rappresentative di istanze dimenticate. L’abbiamo visto con la Lega Nord diversi anni fa, con la corrente renziana del Partito Democratico e infine con l’ascesa del Movimento Cinque Stelle.
Se dovessi riassumere ogni slogan di questi movimenti sopracitati incarnerei il primo in “Roma ladrona”, il secondo in “Rottamiamoli” e il terzo in “Vaffanculo! Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno”. Alla base c’è sempre una protesta, un bisogno di cambiamento che viene incarnato in un leader, o in un gruppo di persone, e viene portato avanti finché non diventa opinione diffusa. A questo punto, una volta fattosi notare, una volta raggiunto l’obiettivo di diffondere il messaggio presso le masse, finisce il tempo di protestare – e demolire – ed inizia il compito ben più complesso di costruire qualcosa di valido e alternativo.
Per quanto non sia stato sempre d’accordo con le scelte del Governo Renzi – vedi soprattutto la riforma della “Buona Scuola” – devo ammettere che se alle primarie del Partito Democratico ho sempre votato per lui (da non tesserato), è perché, al di là della protesta e degli slogan da rottamatore, ho sempre creduto nel suo progetto politico.
Renzi nei suoi libri e nella sua attività di sindaco ha sempre proposto una strada verso un obiettivo: una terza via politica e culturale di tendenza social-democratica che ha come summa teorica il suo libro “Stil Novo – La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter”. Un libro che già dal titolo ci fornisce immediatamente la dimensione, e tutti i parallelismi storico-culturali, del suo programma politico.
Quello che proponeva Renzi – rafforzato dalle sue Leopolde e da un uso sapiente di social network quali Twitter e Facebook – era un qualcosa di una lungimiranza da tempo dimenticata: un programma politico sorretto da un’idea culturale dell’Italia. Un’idea che si fonda su un parallelismo caro a Matteo: quello con il passato fiorentino, con la storia culturale che attraversa Firenze dal Rinascimento ad oggi, che vive eterna negli scritti di Dante, di Machiavelli; che svetta lucida nella cupola di Santa Maria del Fiore e nell’affascinante storia della Firenze Medicea. La Firenze della cultura e della politica, quella del merito, delle corti frequentate da intellettuali e mecenate finanziatori della Cosa Pubblica. Per approdare al passato più recente come il grande sindaco di Firenze Giorgio La Pira, politico illuminato su cui Renzi ha fatto la tesi di laurea spulciando ogni archivio cittadino. La storia dello Stil Novo renziano è maestra di vita, ma subisce un’evoluzione che non può essere ignorata, e dunque ecco il messaggio dall’implicito sapore cristiano: bisogna guardare alle virtù del passato pur sapendo “cogliere i segni dei tempi”.
Ecco che la cultura è sempre stata un pilastro portante del pensiero renziano, ma non lo è stata con la stessa esclusività dei radical chic che per troppo tempo hanno preso il sopravvento culturale di una sinistra a vocazione minoritaria, lo è stato secondo un disegno preciso e lungimirante. Sviluppare la cultura in Italia per ripartire come Paese con valori saldi, perché Renzi ha chiaro che “surgunt virtutibus urbe”, e dunque spazio alle virtù: serve creare le condizioni perché queste virtù possano svilupparsi nel Paese. Ecco che Renzi ravvisa la necessità di spingere la sinistra verso alcune riforme di stampo liberale: abbattere la burocrazia, che Renzi indica come causa principale dell’inefficienza dei Sindaci, i quali vengono ridotti da essa a pensatori-proponenti di idee, senza possibilità di agire tempestivamente. Il merito, vero incentivo per un Paese competitivo e stimolato ad agire. Un mercato del lavoro più flessibile, dove flessibilità non vuol dire licenziamenti immotivati ma maggior mobilità del capitale umano, senza per questo cadere in un eccessivo precariato. Poi c’è l’europeismo ispirato al Manifesto di Ventotene, secondo la ratio che l’unico modo per scongiurare guerre e portare pace e concordia nel Vecchio Continente sia quello di un’unione federale politica, con cessione di sovranità popolare e costruzione di un’identità culturale europea, ancor prima che economica.
Queste sono alcune delle basi che differenziavano il pensiero renziano dello Stil Novo, dal resto del Partito Democratico di quei tempi. A questo Renzi affianca un’abile ed innovativa strategia di comunicazione politica, coronata dall’incontro con il suo spin doctor Filippo Sensi. Ne nasce un modo innovativo di comunicare, decidere e operare, in cui Renzi, in linea con il suo vissuto scout, organizza i suoi fedelissimi come fossero “uno staff”, nel senso scout del termine, ovvero secondo la dialettica del: idee-confronto-decisione-azione immediata. Ma se Renzi in partenza può contare soltanto sui suoi fedelissimi della Leopolda, è in quegli anni che incontrando e conoscendo la classe dirigente italiana, matura le sue linee programmatiche, le linee che si vanno ad incontrare e scontrare con il programma del PD, ed è presto fatto: prossima fermata Italia.
Prosegue la strategia del rottamatore, del sindaco che si muove in bici, che costruisce la nuova rete tramviaria, amplia biblioteche e costruisce nuovi luoghi di cultura, asili nido, parchi pubblici, incrementa il turismo in maniera “spaventosa”. Tutto secondo uno slogan: “o cambio Firenze o cambio mestiere”, slogan peraltro riutilizzato più avanti con il referendum. Così Matteo muove i primi passi scontrandosi duramente con Bersani e i vecchi DS, a colpi di Direzioni Pd, post su Facebook, E-news sul suo sito e dibattiti per le primarie. Nel frattempo si forma un consenso interno e un altro ben maggiore esterno. Renzi si reca ad Arcore a chiedere fondi per Firenze a Berlusconi, il Cavaliere ne rimane affascinato, forse intravede le basi d’intenti per un futuro Patto del Nazareno. Questo non lo sappiamo, ma Renzi dal Cavaliere impara la strategia che banalmente definiamo populista, ma che invece è quanto di più importante per farsi conoscere: essere presente dovunque. Così inizia a frequentare i salotti televisivi, da Porta a Porta ad Amici – con il giubbotto di pelle -, interviste, provocazioni, slogan. Tutti iniziano a conoscere Matteo da Firenze, il rottamatore, colui che vuole mandare D’Alema e i suoi a casa, quello che non ci sta ad un partito elitario, ma che vuole un Pd che stia in mezzo alla gente, non alla Berlinguer ma alla 2.0, con una campagna popolare diffusa sul web, vicina al linguaggio di Obama 2012.
La strategia è quella giusta, ma il tempo è poco, così nel dicembre 2012 lo Smacchia–giaguari Pierluigi Bersani lo sconfigge. Renzi ammette la sconfitta, infonde coraggio ai suoi e temporeggia con la stessa strategia, con una sicurezza in più: il partito è spaccato, il popolo fuori lo acclama. Passa il tempo, Bersani vince risicatamente le elezioni, si dimette dopo poco da Segretario, incapace di formare un Governo sul mandato esplorativo conferitogli dal Presidente Napolitano.
Così sale Letta a Palazzo Chigi, ma nel frattempo si riapre la partita interna, l’ultima battaglia della fase di transizione verso un nuovo Pd: Franceschini appoggia Renzi con la sua corrente, idem alcuni deputati vicini a Letta (Ignari di cosa sarebbe successo di lì a poco), ed è un’altra volta primarie: stavolta Matteo sale al Nazareno da vincitore, ed il Partito non solo cambia segretario, ma anche segreteria, linea politica e da ultimo Presidente del Consiglio. “Enrico stai sereno”, e il resto è attualità. Fuori Fassina, fuori Civati, il 40% all’europee: il partito è conquistato, l’Italia pure.
1000 giorni di Governo, tante novità, molti errori, tante leggi – alcune necessarie, altre discutibili – tante presunzioni e molte battaglie vinte. Ma di alcune cose sicuramente bisogna darne atto al segretario di Pontassieve: era da tempo che non c’era un leader politico capace di condensare attorno a sé un certo decisionismo e coraggio di fare, uno dei primi Presidenti del Consiglio italiani ad andare in Europa a “sbattere i pugni sul tavolo” per tornare a dar voce al nostro Paese, uno dei fondatori tra l’altro.
Che lo Stil Novo non sia stato attuato è vero, ma si sa, l’Italia è un Paese complesso da governare, un Paese in cui P.A. e burocrazia più che garanzie spesso diventano ostacoli e cunicoli in cui ristagnano la corruzione e il malaffare. In questo scenario di promesse non portate a termine, una volta finito il compito di protesta, Renzi, seppur con sbagli ed errori, ha iniziato quello del costruire un progetto, ed in questo si è dimostrato davvero capace e scaltro. Talmente scaltro da lasciare il campo alle opposizioni dopo la sconfitta referendaria. Il riferimento principale è al Movimento Cinque Stelle, che finora si è limitato a cavalcare il malumore, e adesso, nel tentativo di ergersi a pool di statisti con il pallino del voto immediato, strizza timidamente l’occhio ad un Italicum che fino a ieri andavano additando come il peccato più atroce di questa legislatura. Un peccato diffuso da un PD che nel frattempo sta subendo una lotta interna dagli esisti imprevedibili, fatta di correnti che fluttuano nell’incertezza derivante dallo spettro di un imminente Congresso.
Tuttavia seppur nella situazione incerta e volatile, in virtù della lungimiranza politica del Premier uscente possiamo stare sereni, sicuramente la sua avventura politica non è finita qui, e anzi tornerà. Sarà come Cosimo De’ Medici: dopo l’esilio il ritorno con tanto di acclamazione.
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