Fidel Castro è morto. La prasseologia definirebbe la sua figura con la parola “ambivalente” poiché è questo che egli fu nei momenti-svolta della sua vita: da paladino liberatore di popoli quale era si trasformò nel suo turgido, turpe, adamantino, soggiogatore. Ciò che però interessa ai fini di questa pubblicazione non è delineare i canoni della sua presidenza, dove, per essi sarebbe più consono una sala per il salubre dibattito piuttosto che un articolo di giornale predisposto ad incagliarsi nella secca dei giudizi personali; ma è di mettere in luce come egli sia entrato tra le fila di uomini che fanno parte del Gran Teatro della storia. Di come, nell’immaginario collettivo, la figura di Castro riuscì a vestire i panni (o meglio, l’uniforme) di coprotagonista della seconda metà del ventesimo secolo.
La risposta converge nella sua carriera di rivoluzionario, dove, le sue azioni e quelle dei suoi compagni, i barbudos, hanno il sapore di romanzo epico, d’impresa cavalleresca riscritta in chiave moderna. Quei sei anni di Rivoluzione Cubana in opposizione al regime del corrotto Fulgencio Batista si inaugurarono sullo sfondo esotico di Santiago de Cuba, nel fatidico 26 luglio 1953. Là, un centinaio di uomini male addestrati, tentarono di accendere un colpo di stato a partire dalla caserma “Moncada”. L’inesperienza e la disorganizzazione strategica sentenziarono il fallimento dell’operazione che costarono a Castro un processo. Qui convinto che la pena che li sarebbe stata commiata fosse quella capitale, chiuse la sua arringa difensiva con l’emblematica frase:” La storia mi assolverà”. Ed effettivamente fu quello che accadde. All’indomani della sua esecuzione la pena di morte venne abolita e due anni dopo, grazie ad una petizione, ricevette l’amnistia. Libero, da incosciente personaggio kafkiano andò in esilio in Messico assieme al fratello Raùl dove, in un anno, conobbe Che Guevara e addestrò un battaglione di uomini interessati alla sua causa. Alla squadriglia conferì un nome denso di ricordi, “Movimento del 26 di luglio”.
Successivamente, nel 1956, 82 uomini agguerriti e preparati salparono dalle coste messicane a bordo del “Grama” in direzione di Cuba. Non appena sbarcarono (nella provincia che avrebbe preso il nome dell’imbarcazione da loro utilizzata) furono sorpresi dall’esercito che ne fece una carneficina. Sopravvissero solo in 12 fra cui, oltre Fidel, suo fratello Raùl e Che Guevara, anche Gino Donè Paro ex partigiano italiano e unico europeo ad aver partecipato alla Rivoluzione Cubana. Paradossale e a tratti quasi folle la tenacia di questi uomini che, scampati per miracolo alla morte, non abbandonarono la propria causa ma una volta accampati sugli altipiani della Sierra Maestra si riorganizzarono sulla base dell’astuzia sfruttando a loro favore i dissensi che la popolazione locale nutriva nei confronti di Batista. Forti di questa strategia i superstiti del Grama ottennero informazioni continue sugli spostamenti dell’esercito, vettovagliamento e, soprattutto, grazie alle adesioni degli oppressi, una nuova falange offensiva. Dopo una serie di azioni di guerriglia, le truppe ribelli si divisero in due colonne operanti ad est e ad ovest dell’isola riportando una serie di mirabolanti vittorie. Decisiva fu la battaglia di Santa Clara (1 gennaio 1959), chekpoint di ingresso per L’Avana, risolta dal Che e dalla sua unità che, arrivata nella capitale, mise in fuga Batista. L’ingresso in città di Fidel Castro, l’8 gennaio 1959, sancì il trionfo dei barbudos e la fine della Rivoluzione. Rivoluzione che per dirla con le parole dello storico Hobsbawn:” aveva tutto: romanticismo, eroismo delle lotte sulle montagne, capi che erano stati studenti universitari con gli impulsi generosi della giovinezza, un popolo osannante, in un paradiso tropicale per turisti, dove la vita pulsava al ritmo della rumba.”.
Infine, per completezza espositiva, è utile trattare la questione ideologica. I membri del M26-7 (nome abbreviato del movimento) avevano abbracciato la filosofia dell’antimperialismo rivoluzionario: inizialmente, quindi, né Castro né i suoi compagni si ritenevano comunisti e neppure marxisti. Tutto però spingeva il governo castrista verso quel tono di rosso, prima fra tutte la loro fede rivoluzionaria. Inoltre il tipo di dirigenza instaurato da Fidel, basato sui monologhi informali davanti a milioni di persone, non era un sistema che consentisse di mantenere il controllo di una nazione per un lungo periodo: perfino il populismo ha bisogno di organizzazione. Il Partito comunista era il solo strumento che potesse fornirla. La Guerra fredda e lo sbarco alla Baia dei Porci avvenuto, a detta sempre di Hobsbawn:” ben prima che Fidel avesse scoperto che Cuba doveva diventare socialista e che lui stesso era un comunista, sia pure alla sua maniera.”, fecero il resto. Difatti il Partito comunista cubano nacque, anche se già gravido di tutte le sue riprovevoli conseguenze, solo nel 1965 per volere di Castro. Da quel momento in avanti, forse, la storia, non lo assolverà più.
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