22 Dicembre 2024

Quando verso settembre ho iniziato ad addentrarmi nel mare magnum che circonda la riforma costituzionale Renzi-Boschi mai mi sarei immaginato che venirne a capo – cioè decidere consapevolmente cosa votare – sarebbe stato tanto difficile. Il primo passo fu intervistare Emanuele Rossi, professore di Diritto Costituzionale e Prorettore Vicario della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Dopo aver intervistato il professor Rossi, ero quasi sicuro che avrei votato no. Quello che non sapevo però è che l’essermi appena affacciato alla questione non faceva di me un cittadino pronto ad esprimere una scelta di voto sensata e ben motivata, le cose erano ben più complesse di come le avevo viste fino a quel momento. È proprio per la necessità di diffondere quello di cui mi sono accorto a-posteriori che ho scritto questa guida al “perché dovremmo votare sì”. Fatte le dovute premesse, ovviamente.

La prima premessa, che giudico di sostanziale importanza, nonché fondamentale per un’analisi intellettualmente onesta, è relativa al metodo: non è mia intenzione partire da una mia convinzione – votare sì piuttosto che no – per trovare corrispondenze a questa mia tesi nei fatti, ma al contrario partire dai fatti per arrivare a formulare una risposta al dubbio in questione: sì o no?


La seconda premessa è un passo indietro rispetto a quanto scritto nell’articolo precedente: per quanto sia importante distinguere il lato giuridico da quello politico spesso è inevitabile sovrapporli. Questo per un’ovvia esigenza di reciproca influenza: approvando determinate leggi viene a formarsi un certo contesto politico, così come con un certo contesto politico si favorisce il fiorire di certe leggi. Il diritto regge lo stato e ne garantisce il corretto ordinamento democratico, quel che però spesso viene omesso, a causa forse di una miopia storica, è che le leggi le fa da sempre la politica, cioè le scelte di chi governa. In una Repubblica parlamentare come la nostra è il Parlamento che oltre a legiferare vota la fiducia al Governo, dunque a governare è il popolo con una delega per rappresentanza insita nel voto. Delega che per quanto democratica non può da sola bastare ad impedire derive autoritarie. Per questo c’è bisogno di un baluardo che sorregga tutto il sistema, imponendo dei limiti alla politica: questo baluardo è la Costituzione.

Fatte le necessarie premesse partiamo con la disamina.

 

  1. IL CLIMA – Ovvero tutto quello di cui tener conto prima di entrare nel merito

a) Cambiare la Costituzione è legittimo?

Proprio in relazione alla seconda premessa potremo porre un quesito fondamentale chiedendosi se, sviluppando il caso in cui nel mutare dei tempi sorgessero una o più necessità di modifica di quel baluardo, e qualora la maggioranza dei cittadini e dei rappresentanti al Governo si ritenesse favorevole ad una sua modifica, sarebbe lecito o meno procedere in tale direzione. Questa è la domanda da cui partire per decidere cosa votare.

La risposta è senza dubbio sì. In primo luogo perché la stessa Costituzione prevede la possibilità di una sua modifica con maggioranze assolute, oppure in pochi altri casi con un passaggio referendario, come sancito dall’articolo 138 della Costituzione stessa. Cambiare la Costituzione è lecito anche perché la Carta Costituzionale entrata in vigore nel ’48 è stata il compromesso di vari dissidi e pensieri piuttosto contrastanti tra i partiti che parteciparono al dibattito in sede di Assemblea Costituente. Non tutti sanno ad esempio che buona parte dei Costituenti era favorevole ad un monocameralismo.

La differenza sostanziale tra quel che deve essere toccato e quel che non può essere toccato lo fanno i principi base. Il costituente del ’48 aveva un particolare tratto distintivo rispetto ad oggi: la razionalità. Razionalità che spinse i partiti a metter da parte ideologie e istanze delle singole parti, per elaborare principi morali comuni, che oltre a dare fondamento al futuro della Repubblica ne sono diventati pure le basi. Parlo dei diritti, dei doveri e di tanti altri passaggi fondamentali della parte prima della Costituzione, cioè tutti quei diritti che esistenti di per sé non possono venir meno in uno stato moderno, sociale, liberale e democratico.


Allora quel che dobbiamo chiederci è nella prassi corrente cosa può e cosa non può essere modificato.

Chiarita la legittimità del referendum costituzionale in questione, è sulla domanda precedente che si regge il resto dell’analisi.

Assemblea Costituente
Assemblea Costituente

b) 1948-2016: l’Italia a due velocità

Vista l’importanza fondante dei principi summenzionati (diritti, doveri, libertà e obblighi della prima parte della Costituzione), direi che le possibilità di modifica si ravvisano nelle parti che, seppur di altrettanta sostanziale importanza, possono risentire del mutare dei tempi. Il riferimento più chiaro è alla varie forme tecniche utilizzate per legiferare. Negli ultimi anni abbiamo visto un ricorso eccessivo ai decreti legge o ai decreti legislativi, dunque a forme tecniche che partono da un’azione di governo, non parlamentare. Strumenti pensati per altri fini. In parlamento la maggior parte dei voti degli ultimi anni invece sono stati leggi di conversione di decreti, non disegni di legge.

Questo modus operandi può esser letto come un prevalere del governo, non nominato direttamente dai cittadini, sul parlamento, nominato direttamente dai cittadini, e può sfociare in una prima vera minaccia per una repubblica parlamentare.

La riforma Renzi-Boschi va invece in tutt’altro senso, mirando a correggere questo eccessivo ricorso all’azione di governo che si è consolidata negli ultimi anni per tante concause. Queste concause possono essere ravvisate ad esempio nel divario tra i tempi troppo lunghi per approvare una legge di iniziativa parlamentare a fronte dei tempi più rapidi previsti per un decreto legge o un decreto legislativo. Ma possiamo parlare anche di fattori politici: quando comincia un abuso è difficile fermarlo. Potremo alludere anche al velocizzarsi dei tempi rispetto al passato: nel ’48 ad esempio internet non esisteva, quei tempi d’approvazione erano tempi adeguati e ragionevoli. Oggi invece il mondo va veloce, esiste il web, tutto è istantaneo, compresa l’evoluzione normativa che cerca di tenere il passo con le nuove tecnologie ed esigenze sociali, ma che non riesce a correre allo stesso ritmo. Per questo è necessario trovare strumenti per legiferare più rapidamente, pur consentendo una discussione democratica e nel merito dei fatti.  Sotto questo aspetto la riforma si prefigge di riportare l’Italia ad un’unica velocità senza abusi di potere.

c) La questione del mancato dibattito istituzionale

Uno dei punti su cui, almeno inizialmente, hanno fatto maggiormente leva i comitati del no, era proprio sul dibattito che ha concepito la riforma. Se è vero che nel dibattito istituzionale l’idea di una riforma costituzionale di tale portata è entrata più di trent’anni fa con il Decalogo Spadolini, ancora di più lo è l’auspicio che tutti abbiamo verso riforme di tale importanza: una discussione il più ampia possibile, seguita da una votazione il più unanime possibile. Magari frutto di mediazioni e compromessi, ma comunque largamente condivisa. Nel passato recente ci sono stati numerosi tentativi, tra i più famosi ricordiamo le commissioni bicamerali, la riforma Berlusconi, i tentativi dei “Saggi”, e per ultima la riforma Renzi-Boschi. Dire però che la riforma di cui si discorre prenda piede dal Parlamento non è del tutto esatto. La nascita di questo progetto Renzi lo concepisce durante le sue Leopolde, poi lo arricchisce con l’eredità raccolta da Letta, quindi il Patto del Nazareno, fino ad approdare in Parlamento. L’articolo 138 della Costituzione sancisce che si possa modificare la Costituzione con maggioranze qualificate e con l’obbligo di un passaggio referendario in alcuni casi su cui non mi dilungo. E così è avvenuto, l’indomani dall’approvazione sono state depositate le firme, e referendum sarà.

La riforma è stata approvata a colpi di maggioranza, la discussione c’è stata, il rimbalzo tra camera e senato pure. Che sia giusto o sbagliato lo lascio giudicare all’elettore, quel che si può dire però è che, dopo tre anni di discussioni e rimbalzi bicamerali, è giusto che una riforma venga votata e sottoposta al volere dei cittadini. Se nessuna forza politica riesce a trovare un compromesso su posizioni nemmeno troppo inconciliabili vuol dire che un errore di fondo c’è. Non sta nella forza di maggioranza, ma in tutto il sistema politico: nella maggioranza come nell’opposizione. D’altra parte sarebbe davvero così futile asserire che l’articolo 138 vada ripensato in linea con i tempi? A ognuno la sua valutazione. Fatto sta che la riforma è stata approvata secondo i termini stabiliti dalla legge e sempre secondo legge sarà sottoposta a referendum.

Fornire agli elettori alcuni semplici numeri per un confronto penso sia d’obbligo però. La riforma costituzionale è stata discussa per 2 anni, il doppio di quanto si è discusso in Assemblea Costituente, con 5252 votazioni, contro le 1060 votazioni della Assemblea Costituente. Dei 47 articoli interessati, 28 sono stati ulteriormente modificati dal Parlamento – con 122 emendamenti accolti – ed alla fine la riforma è passata attraverso 6 letture Parlamentari, anche con i voti di centrodestra.

Questi sono i fatti riguardo la discussione.

I proponenti: Matteo Renzi e Maria Elena Boschi
I proponenti: Matteo Renzi e Maria Elena Boschi

d) Comunicazione tra sì, no e l’errore della personalizzazione

Votare una riforma costituzionale così ampia è un compito difficile persino per il più arguto degli intellettuali. Sono tanti i tasti toccati, tanti i “poteri forti” scomodati e ancor di più è la polvere sollevata dal metter mano a questo “libretto vecchio”, ma mai venuto meno nella sua validità.

Come sempre quando ci si trova ad affrontare questioni complesse di natura tecnico-giuridica il compito dei proponenti è quello di darne una spiegazione capibile, valida e veritiera per spingere l’elettore ad un voto consapevole. Ma si sa, laddove stanno confusione e complessità le forze politiche ed i mass media attraverso la comunicazione politica e il populismo possono far leva sul passaggio tra proponente ed elettore per cercare di ottenere il risultato mediatico da essi preferito. Talvolta la forma è di fatto una strumentalizzazione, cioè quando qualcuno utilizza questi concetti per il proprio fine, altre volte invece no. E se andiamo a vedere nel concreto è sempre più difficile non scadere nell’iper-semplificazione di concetti complessi. Però il problema non è tanto la banalizzazione, quanto la distorsione.

Un fatto su cui non si può facilmente tacere è ad esempio questa improvvisa sintonia politica nata sulla Costituzione tra i partiti schierati per il no. Che c’entra Salvini con i compagni di Sinistra Italiana? La Meloni coi Cinque Stelle e Berlusconi con Civati? A pensar bene si direbbe che forse più che difendere la Costituzione (Tanti sono gli elementi in comune tra la riforma Berlusconi del 2006 e la Renzi- Boschi) queste forze politiche siano unite dall’espugnare da Palazzo Chigi la leadership di Renzi, che in caso di vittoria governerebbe senza disturbo fino al 2018.

FILE - In this Dec. 28, 2011 file photo shows Obama 2012 campaign manager Jim Messina at the Chicago headquarters. Obama veterans are building a wide network of deep-pocketed groups and consulting firms independent of government, the Democratic Party and traditional liberal groups, a sweeping _ if not unprecedented _ effort outside the White House gates aimed at promoting the president's agenda and shaping his legacy. (AP Photo/Charles Rex Arbogast, File)
Jim Messina. AP Photo/Charles Rex Arbogast.

D’altro canto parlando della strategia di comunicazione attuata dal sì, c’è da dire che l’organizzazione dei comitati “Basta un sì” è stata pianificata ed organizzata ad un livello ineccepibile in confronto a quella dei comitati del no, cioè centralizzata a livello nazionale e de-centrata a livello territoriale. Ne ho parlato qualche giorno fa raccontando chi è Jim Messina, il luminare della comunicazione politica che ha organizzato la campagna per il sì in Italia.

 

Per quanto si possa essere contrari il livello di populismo toccato dal sì non è mai nemmeno paragonabile al viscido tentativo del no di trasformare il referendum in un plebiscito su Renzi. Ma la colpa stavolta è di Renzi stesso, il primo a commettere un errore tanto grave quanto inevitabile: la personalizzazione.

Votare no per molti è diventata l’unica chance per liberarsi di Renzi, questo è quello che conta. Ma non mi voglio dilungare su questo punto che apre l’orizzonte a troppi scenari di fanta-politica.

La politica invece è un’arte pragmatica, e dunque, sempre pragmaticamente, possiamo dire che l’iniziale tentativo di Renzi di personalizzarlo sia stato un clamoroso fiasco. Un fiasco che ha rischiato di essere de facto la zappa sui piedi giusta per farlo fuori. Ma Renzi è un abile stratega politico, ed ha arginato questo rischio al meglio per quanto possibile fare: sfruttando una dichiarazione di Napolitano per riconoscere pubblicamente l’errore.

Su una cosa mi preme insistere in linea con il criterio d’azione della mia analisi: per votare veramente nel merito dovremo concentrarci sui fatti, dunque sul testo, sui cambiamenti e sulle ratio dei proponenti, non sulla comunicazione. Per quanto sporca e distorta questa possa essere.

Come possiamo notare gli elementi che contornano questa riforma costituzionale sono tanti e molto complessi. Ma una volta spiegato per quanto possibile il clima che ne fa da cornice entriamo davvero nel merito della Carta Costituzionale.

  1. ENTRARE NEL MERITO – I contenuti della riforma

a) Cosa cambia davvero con la riforma e perché volerla o meno?

Tanti sono i punti affrontati dalla riforma costituzionale Renzi-Boschi, ecco qui una disamina completa e sintetizzata in sette punti fondamentali:

  • Bicameralismo differenziato. In poche parole via il Senato come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi. Alla Camera dei Deputati sarà attribuita la rappresentanza della nazione, il potere di indirizzo politico attraverso la fiducia al governo, mentre al nuovo Senato –la Camera delle Autonomie – spetterà la rappresentanza delle istituzioni territoriali. Entrambe le camere continueranno ad essere elette a suffragio universale e diretto, quello che cambia sarà la composizione del Senato. Il Senato sarà formato da 95 senatori, cioè 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, dunque eletti dal popolo, più cinque senatori nominati dal Presidente della repubblica, ma con mandato a scadenza. I criteri specifici di elezione dei senatori andranno definiti con una legge ordinaria, come previsto dal nuovo articolo 57 della Costituzione.1460528564161-la_riforma_del_senato_e_legge__scoppiano_le_polemiche__a_ottobre_nuovo_referendum1-1

Riguardo le competenze solo la Camera deciderà sulle leggi ordinarie, mentre sulle altre (Come le leggi di revisione
costituzionale) rimarrà centrale anche il Senato. Al Senato sarà dato potere su alcune materie che vanno a toccare le autonomie regionali e territoriali, il resto delle materie sarà di esclusiva competenza nazionale passando in mano alla Camera.

I territori grazie alla Camera delle Autonomie avranno maggiore influenza nell’azione legislativa soprattutto nel raccordo tra stato e territorio e tra stato e unione europea.

Ci sarà una notevole riduzione dei costi della politica, notevole ma non così incisiva nel bilancio pubblico.

  • Riforma del Titolo V e abolizione del CNEL. Le province verranno abolite. Questo vuol dire che verrà tolto ogni riferimento esistente nella Costituzione, non che dall’indomani cesseranno di esistere, ma che non risulteranno più nella fonte primaria del nostro diritto: la Costituzione. Inoltre verrà soppresso con decorrenza quasi immediata anche il CNEL (Consiglio Nazionale per l’Economia e il Lavoro), ma su questo siamo già tutti d’accordo.

Ad ogni modo le regioni a statuto ordinario perderanno parte della propria autonomia per accentrare molte materie di competenza in mano al Parlamento.

L’unico dubbio è il perché non togliere lo statuto speciale alle regioni che lo possiedono, d’altra parte venute meno le ovvio esigenze del ’48 se si decide di accentrare certe materie sotto la competenza nazionale questo non è che una conferma del passato. La mia opinione? Renzi e gli altri proponenti sapevano che inserire anche questo dettaglio rilevante poteva essere la vera zappa sui piedi per far passare la legge. Per certe resistenze ci vuole tempo e coraggio, così come per certe scelte ci vuole troppa lungimiranza politica. È impossibile ribaltare tutti i vizi del Belpaese in un solo colpo.

Un’altra critica è stata quella secondo cui l’attuale riforma non è che una controriforma di quella del 2001: si preferisce un accentramento rispetto ad un decentramento. È parzialmente vero, ma qui si tratta di scelte politiche del legislatore, su questo ognuno potrà valutare di essere in linea o meno.

  • Procedimenti legislativi. Il governo avrà a disposizione un grande aiuto: quello di poter costringere la Camera a valutare e votare disegni di legge prioritari in tempi brevissimi, non oltre i 70 giorni. In generale però il nuovo procedimento legislativo si articola in tre procedimenti principali:
  1. Il procedimento a prevalenza della Camera, che si applica in via generale a tutte le leggi diverse da quelle bicamerali, che sono approvate dalla Camera e sono esaminate dal nuovo Senato solo se lo richiede un terzo dei suoi membri entro dieci giorni dalla trasmissione da parte della Camera. In tal caso il Senato può approvare proposte di modifica entro i successivi trenta giorni. Quando il Senato non intenda procedere all’esame, o quando sia passato inutilmente il termine per deliberare o quando la Camera si sia pronunciata in via definitiva, la legge viene promulgata.
  2. Il procedimento bicamerale che richiede l’approvazione dei disegni di legge da parte di entrambe le Camere (Come oggi), ma solo per: le leggi di revisione costituzionale e altre leggi fondamentali.
  3. Il procedimento speciale per leggi di materia regionale. Su proposta del Governo il Parlamento può votare leggi regionali. In questo caso le proposte di modifica deliberate dal Senato a maggioranza assoluta dei suoi componenti possono essere superate dalla Camera soltanto a maggioranza assoluta dei propri membri.

Il tutto sarà coronato anche dall’introduzione di uno Statuto delle opposizioni, cioè un regolamento che garantisce e regola tutti i diritti e doveri delle opposizioni e delle minoranze. Inoltre saranno previsti dei limiti forti alla decretazione d’urgenza.

  • Presidente della Repubblica. Vengono previste maggioranze diverse per l’elezione del Presidente della Repubblica (Che avverrà in seduta comune delle due camere più 58 delegati regionali). Sarà necessaria la maggioranza dei due terzi fino al quarto scrutinio: dalla quarta alla settima votazione saranno necessari i tre quinti e dalla settima in poi i tre quinti dei presenti. Attualmente è necessario ottenere i due terzi dei voti fino al terzo scrutinio; dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta: Napolitano e Mattarella sono stati eletti così. Di conseguenza, la riforma dovrebbe garantire un’elezione più condivisa. Inoltre la nomina del Presidente del Consiglio e del Governo rimane prerogativa esclusiva del Capo dello Stato, dunque l’articolo 92 non sarà modificato dalla riforma.
  • Corte Costituzionale. I giudici della Corte Costituzionale eletti dal parlamento saranno eletti dal Parlamento con la maggioranza attuale: due dal Senato e tre dalla Camera. Mentre ci sarà la possibilità di un ricorso preventivo alla valutazione della Corte Costituzionale su una legge elettorale prima che essa venga promulgata.
  • Referendum. Viene riformata la disciplina del referendum abrogativo: in caso di raccolta di 500.000 firme il quorum rimarrà invariato, in caso invece di più di 800.000 firme raccolte il quorum previsto è quello dell’ultima elezione della Camera dei Deputati più uno. Verranno introdotti tempi certi per le leggi di iniziativa popolare, garantendo una deliberazione conclusiva, oltre che un numero preciso di sottoscrittori (da 50.000 a 150.000).
  • Pari opportunità. Le leggi che disciplinano le modalità di elezione di entrambe le camere dovranno cercare di promuovere l’equilibrio tra uomini e donne nelle istituzioni.
  • Disposizioni transitorie. L’ultima parte della riforma riguarda le disposizioni transitorie, dunque l’entrata in vigore delle nuove norme costituzionali. Alcune come l’abolizione del CNEL entreranno in vigore con decorrenza quasi immediata, le altre invece no. E qui la questione diventa spinosa perché non si sa a chi spetterà riscrivere i regolamenti e le varie leggi ordinarie per applicare la riforma. Ma su questo punto lo scenario è imprevedibile al momento.

 

b) Il bicameralismo differenziato può davvero indurre a derive autoritarie?

Partendo dal presupposto che davvero l’abbandono del bicameralismo paritario significhi convergere verso uno stato anti-democratico o verso derive autoritarie, dovremmo asserire che l’unico stato democratico in Europa sia la Romania, in quanto unico stato con un bicameralismo perfetto. Ed è forse vero che Francia e Germania sono dittature? Ovviamente è facile rendersi conto che non è questo il pericolo.

Per i sostenitori del no il vero fulcro del problema risiede nel combinato disposto, cioè nell’unione tra la riforma Renzi-Boschi e la leggere elettorale “Italicum”. Questa combinazione secondo le critiche assicura al partito che vince l’elezione una netta maggioranza alla Camera, indipendentemente da quanti consensi ha ottenuto al primo turno. Secondo i critici quindi, unendo la riforma alla legge elettorale si rischia di creare una Camera molto forte dominata da un partito di maggioranza che ha un numero di seggi del tutto sproporzionato rispetto al consenso ottenuto alle elezioni.

È per questo motivo che i critici del governo hanno parlato del rischio di una “deriva autoritaria”: Gustavo Zagrebelsky, ad esempio sostiene che si possa arrivare lentamente ad una deriva oligarchica. Nel corso del confronto televisivo nella trasmissione di Mentana, Renzi ha replicato a Zagrebelsky spiegando che «l’autoritarismo è dove si mettono in galera i giornalisti».

La risposta prevalente alla critica è che in Europa ci sono altri sistemi elettorali che producono risultati simili (ossia partiti che ottengono la maggioranza dei seggi pur avendo consensi molto inferiori al 50 per cento). L’esempio che si fa di solito è quello del Regno Unito, dove nel maggio del 2015 il partito conservatore di David Cameron ha ottenuto la maggioranza dei seggi col 36,9 per cento dei voti.

Dunque più che procedere verso una deriva autoritaria il sentimento prevalente è quella di una maggior governabilità a fronte di una rappresentanza non proporzionale. Un costo che in termini reali è ben giustificato dalle esigenze politiche oltre ad essere di notevole buon senso.

  1. IL CAMBIAMENTO TRA PAURE E PROGRESSISMO

Analizzando le critiche del no sembra che l’intera questione possa essere sintetizzabile in una scelta: “preferite voi maggiore governabilità ed efficienza a fronte di una non perfetta rappresentatività, oppure no?”. Dunque non ci sono derive autoritarie veramente incombenti, né tanto meno colpi di stato dei costituzionalisti a danno dei politici. Il bivio è sempre il solito: riformismo o conservatorismo? L’Italia ancora una volta è chiamata a decidere sulle proprie prigioni.

L’errore di fondo in questo bivio è credere che da sola la Costituzione o la legge elettorale bastino a garantire un popolo virtuoso o quantomeno una legiferazione moralmente ispirata e lontana dai vizi umani. Non sono le leggi a fare le virtù di un popolo, ma i popoli virtuosi con governanti moralmente ispirati a fare leggi più giuste. L’Italia del domani non basa il suo futuro solo sul cambiamento della Costituzione ma sulla dose di cultura e sui valori con cui sapremo orientare le nostre scelte e che sapremo passare ai nostri figli. Ma questo è un altro discorso.

Questo referendum ci chiede un semplice parere: decidere se sedere al tavolo dei riformisti o dei reazionari. Perché il conservatorismo non ha colore politico: siede a destra come a sinistra e non guarda in faccia a nessuno.

Io scelgo di schierarmi dalla parte dei riformisti, perché nonostante questa riforma abbia tanti margini di miglioramento, nella sua interezza apporta un insieme di cambiamenti che ritengo fondamentali per il futuro del paese, andandosi a profilare come un punto d’inizio, non di arrivo.

Non sarà un atto rivoluzionario, tuttavia, alla luce di questa analisi, cominciare apponendo un sì sulla scheda elettorale non è cosa di poco conto. 

“Regna cadunt luxu, surgunt virtutibus urbe”

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