Recensione di Steve Jobs
Prendete Danny Boyle, il regista di The Millionaire, del cult Trainspotting, dello struggente 127 Ore, aggiungeteci uno sceneggiatore il cui nome non passa inosservato, Aaron Sorkin, vincitore di un premio Oscar per una delle pellicole più apprezzate degli ultimi anni, The Social Network di David Fincher, e, infine, date loro tutto il tempo e lo spazio necessario per raccontare la storia di una delle personalità più emblematiche, discusse, osannate ed odiate degli ultimi decenni, un uomo capace di essere il nuovo volto dei computer e dell’informatica ed al tempo stesso l’icona di una rivoluzione nata dalla voglia di auto-imporsi come una vera e propria figura di spicco della società moderna: Steve Jobs.
Attraverso l’attenta regia di Boyle, Steve Jobs è un film che riesce ad alternare diversi momenti della vita del CEO della Apple racchiudendoli in precisi e determinati spazi, senza mai ricercare un intreccio lineare o di raccontare la storia come una biografia classica, pur attingendo in toto ad una delle più lette negli ultimi tempi, quella ufficiale scritta da Walter Isaacson; L’intero lungometraggio si svolge, infatti, in tre fasi ben precise della storia del guru dell’informatica: la prima durante la presentazione del Macintosh nel 1984, la seconda durante la presentazione del computer prodotto dalla Next nel 1988 e l’ultima, ma non meno importante, nel 1998 durante il lancio dell’iMac.
Tre date chiave e di grande valore, all’interno delle quali Sorkin da vita al suo film più personale, che in alcuni frangenti ricorda tanto un’opera teatrale, a cui riesce, tramite il linguaggio e la caratterizzazione dei protagonisti, a tratteggiare sapientemente un ritratto umano e profondo di uno degli uomini più influenti del nostro tempo. Lo sceneggiatore premio Oscarera già riuscito nell’impresa nel 2010, con The Social Network, sebbene la macchina da presa comandata da Fincher avesse limitato la potenza narrativa mettendo in primo piano quella visiva, ma stavolta, Boyle, il quale sembra aver capito appieno le intenzioni di quest’ultimo, ha optato per un’impostazione che, non a caso, si mette fin da subito al servizio della narrazione e dei dialoghi, scritti, di certo, in uno stato di grazia tale da aver messo Sorkin in condizioni adatte a scrivere la sua più brillante rivisitazione di un testo scritto, riuscendo a dare alla luce una sceneggiatura limpida, cristallina, dal ritmo sostenuto, elegante, piena di brio, intellettuale e leggera al tempo stesso.
La magia del cinema che si ritrova in Steve Jobs sta proprio nella sua particolarità, un film chiuso in se stesso, nei teatri o nelle maestose sale in cui Steve presenterà alcune delle sue creazioni più acclamate o discusse, ed a contribuire a questo ingranaggio costruito alla perfezione, incapace di incepparsi anche negli attimi più tesi e concitati vi è un montaggio certosino ed efficace, che coglie ogni sfumatura necessaria per collegare diversi momenti della crescita di un’azienda e del suo fondatore con cui da anni abbiamo dimestichezza e che è entrata nella vita di gran parte degli esseri umani.
Non fosse che il tocco di Danny Boyle è comunque avvertibile, con la sua personalità e la sua maestria tecnica, Jobs resta un progetto da lodare anche per il cast di cui è composto, ove ad avere la meglio restano Michael Fassbender e Kate Winslet, i quali riescono a dominare la scena in ogni momento e dimostrano tutta la loro infinita bravura dando vita a due delle più drammatiche e sentite interpretazioni dell’anno. Steve e la sua assistente Joanna Hoffman camminano da una parte all’altra del palco come due attori in un teatro, costantemente alla ricerca di dare una svolta all’Universo e decisi a lasciare un marchio nella Storia.
Questo Jobs, tuttavia, non vuol essere assolutamente un’operazione di mercato, non ne ha la retorica necessaria né tanto meno la volontà, è, nella sua semplice essenza, un dipinto astratto di una persona che della sua vita è riuscito a farne una leggenda, un racconto mitologico da tramandare ai posteri, rivelandosi una macchina calcolatrice infallibile ed al tempo stesso incapace di saper cogliere gran parte degli aspetti migliori a cui un uomo possa fare appello. Egoista, narcisista e spietato, Micheal Fassbender coglie tutti i particolari e le fragilità della sua controparte per conferirle un tocco delicato, ma deciso, il ritratto perfetto di un genio a cui manca qualcosa, che sente di essere diverso dagli altri ed al tempo stesso migliore.
Steve Jobs non è mai stato un programmatore, né un vero informatico, né tanto meno uno studente modello, qualcuno potrebbe azzardare a dire, magari scalfendo la superficie di una verità che in fondo non è poi così importante, ma il Jobs di Boyle e Sorkin è un grande direttore che non mostra alcun dubbio nell’aver consapevolezza delle proprie capacità e della propria visione del mondo, che non vedo l’ora di arrivare a quel momento in cui, salito sul palco, si prepara a suonare l’orchestra che lo porterà alla tanto osannata consacrazione. In questo struggente e realistico modo di vedere il fondatore della Apple, sceneggiatore e regista non si dimenticano di quello che è sempre stato accanto alla vita di quest’ultimo, a partire dal difficile rapporto con la figlia, a quello con la moglie, dai miti a cui Steve si ispirava, ai torti ed alla poca tolleranza rivolta a colleghi e amici. Spogliato di tutto il non necessario, analizzato nella sua più umana essenza, giudicato con criterio e saggezza, Steve Jobs è un lungometraggio emozionante e intelligente, un’opera capace di pensare differente dalle altre e amalgamare al suo interno elementi tipici del cinema d’autore, con altri ricercati da una cerchia di pubblico meno esigente. Un lavoro che arriva a tutti, che lascia il segno, come colui che oggi ha permesso, a chi scrive questa recensione, di avere tra le mani un oggetto che porta il marchio di una mela mangiata, simbolo per eccellenza della scienza e della conoscenza, delle favole e della vita.
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