LIVORNO – Ironica e commovente la commedia in tre atti de “Li sfollati”, che è andata in scena al Goldoni il 27 e 28 Dicembre, messa in scena dalla Compagnia Beppe Orlandi diretta da Lia Orlandi Favilla, regia di Beppe Ranucci, prodotta da Pilarternera.
Siamo a Livorno, nel 1943, la città labronica come tante altre realtà italiane ha conosciuto gli strazi della guerra, i terribili bombardamenti che hanno demolito la maggior parte del suo patrimonio architettonico, oggi conservato solo nelle foto in bianco e nero che anziani e giovani osservano e custodiscono gelosamente nel cuore, seppur soffrendo. Livorno è affamata, così i suoi abitanti fuggono, scappano nelle vicine campagne pisane e lucchesi. Si allontano da casa, dalla loro Livorno, soffrendo terribilmente questo distacco. In questa terribile cornice storica si muovono i personaggi colorati e coloriti mossi dall’intelligenza di Beppe Orlandi, che insieme a Gigi Benigni, creano quello che si può definire uno dei classici fondamentali della cultura livornese e del vernacolo.
La grandezza di questo spettacolo che alterna momenti di dramma vero e proprio ad altri scanzonati è quello proprio di non far scomparire mai il sorriso sul volto dello spettatore se non nei momenti più alti e di sconforto: quando i nostri protagonisti, ad esempio, impotenti e forestieri maltrattati nelle terre dei nemici pisani prima odono i rumori dell’aviazione e poi i bagliori delle bombe, infine ascoltano lontani i gemiti della loro città, delle case e degli amici che muoiono. Proprio la casa e i rapporti della famiglia, tra i vari componenti, aprono quest’opera, muovono l’intera trama, dall’inizio alla fine, sempre contornata da una certa comicità popolare, ma calda e accogliente. I componenti attraverso vari escamotage, cantando, per citarne uno, gli stornelli livornesi, in maniera giocosa e leggera si riferiscono alle avversità quotidiane, come la mancanza di cibo o dei beni di prima necessità, ma lo affrontano con un sorriso, senza demoralizzarsi, con una forza che non poteva non essere presente per riuscire ad affrontare quella realtà così difficile. Seppure l’intento di Beppe Orlandi sia stato quello di divertire il pubblico, si nota in alcuni passaggi, che sfuggono quasi allo spettatore, delle annotazioni invece molto ancora oggi attuali: i pisani vedono i livornesi come stranieri venuti a rubare loro i loro viveri. Quindi seppure in una cornice di profonda comicità la riflessione non manca assolutamente celata nella maggior parte dei casi dietro un velo più o meno pesante di comicità. Il riso quindi è presente grazie a diversi strumenti: primo tra tutti il vernacolo, che rende le persone reali, vicine, con cui si riesce, attraverso modi di dire ed espressioni particolari, l’uso della parola è sicuramente intelligente si avvicina alla parolaccia senza mai dirla, utilizzando modi e proverbi che strappano risate assicurate dal pubblico. In secondo luogo gli attori nella maggior parte sono uomini vestiti da donne, caricati all’eccesso di ninnoli e trucchi, proprio come le livornesi di un tempo, ma che su un attore maschile suscita una certa ilarità. Qui si collega il cosiddetto “teatro della maschera” di Beppe Orlandi in cui sono presenti quei personaggi stereotipati caratterizzati appunto da una maschera.
Infine concludo dicendo che la commedia ha un finale pieno di speranza, che può benissimo essere riproposto ora: il matrimonio tra Astarotte e Wanda, figlia della Beppa, arricchitasi con il mercato nero venutosi a creare con lo sbarco degli americani, può essere il simbolo di rinascita per una città che ha subito i bombardamenti della guerra.
Oggi Livorno non esce certamente da un attacco militare, ma i danni nello spirito, e non solo, sulla città e sui cittadini forse sono addirittura più ostici da superare e le ferite aperte dopo tanti anni più difficili da rimarginare.
Matteo Taccola
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