23 Novembre 2024

 

 

Se lo schieramento che sostiene il regime sciita di Bashar Al-Assad è essenzialmente compatto e contraddistinto da unità d’intenti, lo stesso non si può dire del variegato coacervo di formazioni politiche e militari che lottano da quasi cinque anni per deporlo; fin dai primi mesi di guerra, infatti, quando ancora si poteva parlare solo di violenti scontri di piazza, è apparso evidente come la frammentaria pluralità delle estrazioni culturali delle milizie ribelli rappresentasse un ostacolo insormontabile perché queste ultime costituissero un unico movimento. L’insurrezione, nata come una rivolta della maggioranza sunnita nei confronti delle angherie del governo, si è ben presto trasformata in una proxy war in cui tutti i principali attori regionali, su tutti la Turchia e le monarchie del Golfo, hanno cominciato ad appoggiare il loro alfiere siriano, così da perseguire i propri obiettivi strategici. Ciò ha comportato una drastica svalutazione di quella che, almeno sulla carta, doveva essere l’autorità politica unitaria degli insorti, ovvero il Consiglio Nazionale Siriano, poiché l’iniziativa militare è ormai esclusivamente affidata ai comandanti sul campo. Anche in relazione a questo ambito, tuttavia, non si può certamente parlare di coesione, dato che il Consiglio del Comando Rivoluzionario Siriano, istituito nell’agosto del 2014 come un centro di coordinamento generale di tutte le forze ribelli, ha in realtà un potere quasi essenzialmente nominale. Ufficialmente, esso è composto tanto da compagini laiche, seppur ispirate politicamente all’ideologia dei Fratelli Musulmani, quanto da formazioni marcatamente islamiste.
12380242_10203729954849249_1010552620_nTra le prime, impossibile non citare l’Esercito Siriano Libero (ESL), una milizia formatasi nei primi giorni delle proteste contro Assad e composta da semplici dimostranti, da cittadini sunniti che hanno deciso di armarsi e, soprattutto, da diverse migliaia di disertori provenienti dalle truppe governative. Inizialmente, esso costituiva la componente militare egemone di tutta la ribellione, ma poi, con il passare degli anni, è stato costretto a cedere la propria leadership a formazioni più estremiste  e radicali, complici i ripetuti successi ottenuti da queste ultime contro le forze del regime tra il 2013 e il 2014. Nel giugno di quest’anno, secondo fonti interne, contava ancora tra i quarantacinquemila e i sessantamila uomini, e il suo scopo ultimo, in conformità con la linea dettata dal Consiglio Nazionale Siriano, è quello di instaurare in Siria un regime islamico moderato e democratico.

12355160_10203729954609243_1076074697_nLe seconde, invece, sono assai più numerose e sono contraddistinte da una posizione ideologica non sempre facile da inquadrare, così come non semplice è mai stato il loro rapporto con l’ESL e con le altre componenti laiche dell’insurrezione. Innanzitutto, tra di esse si distingue il Fronte Al-Nusra, l’emanazione ufficiale di Al-Qaeda in Siria, il cui leader, Abu Mohammad Al-Julani, risponde direttamente all’erede spirituale di Bin Laden, Ayman Al-Zawahiri. Forte di oltre diecimila combattenti ben addestrati ed armati e finanziato, sembra, nonostante ripetute smentite, dal Qatar, esso punta alla costituzione in Siria di un emirato islamico radicale, ostile tanto all’Occidente quanto alle minorante etniche e religiose del Paese; da un punto di vista strettamente militare, esso rappresenta la milizia ribelle più potente in assoluto, tanto da aver egemonizzato, in virtù delle sue vittorie contro l’esercito di Assad, praticamente tutto il blocco salafita dei ribelli. A quest’ultimo appartiene, tra gli altri, il Fronte Islamico, la sua formazione più numerosa grazie agli oltre settantamila combattenti che vi hanno aderito; esso è nato dalla fusione di sette diversi gruppi, i quali, pur mantenendo una certa autonomia operativa, hanno deciso di unire gli sforzi per rovesciare il regime di Damasco e per sostituirlo, come i qaedisti precedentemente menzionati, con un emirato islamico, sebbene più “moderato” e maggiormente rispettoso, almeno a livello programmatico, delle minoranze; si ritiene che il Fronte rappresenti gli interessi dell’Arabia Saudita.
Nel marzo del 2015, grazie ai buoni uffici di quest’ultima e della Turchia di Erdogan, Al-Nusra e diverse altre milizie jihadiste, tra cui Ahrar Al-Sham, la più numerosa e agguerrita compagine del Fronte Islamico, hanno dato vita all’Esercito della Conquista, una coalizione militare attiva nella regione di Idlib, nel nord-ovest del Paese, ove ha stabilito il suo quartier generale. Per prima cosa, questa alleanza ha espulso dall’area tutte le brigate rimaste dell’ESL, costringendole a trovare riparo nel Rojava curdo del settentrione; dopodiché, armata e sostenuta tanto dalla monarchia di Riyadh quanto dal regime di Ankara, ha disfatto, il 25 aprile, l’esercito di Assad nella battaglia di Jisr Al-Shughur, con le forze governative costrette a ritirarsi molto più a sud, ai confini della provincia di Hama. Attualmente, l’Esercito della Conquista controlla una notevole porzione di territorio siriano, estesa fino al limite più occidentale del Kurdistan e a quello settentrionale del governatorato di Latakia.


Come si evince da questa analisi, per quanto approssimativa possa risultare, la fazione dei ribelli siriani è ben lungi dall’essere compatta e unita da uno scopo comune. In questo momento, l’opposizione laica è prevalentemente concentrata nel sud del Paese, intorno alla città di Daraa, sebbene alcune delle sue formazioni siano attive nel Rojava orientale, in cooperazione con le milizie curde YPG, e a nord di Hama; il suo peso politico e militare nel conflitto è ormai ampiamente ridimensionato, nonostante l’appoggio diplomatico e, in misura minore, militare dell’Europa e degli Stati Uniti. La componente islamista, invece, incarnata dall’Esercito della Conquista, è arroccata, come precedentemente accennato, prevalentemente nel settore di Idlib ed è divenuta il bersaglio principale della controffensiva lealista degli ultimi due mesi, massicciamente sostenuta dall’Iran e dalla Federazione Russa, con tanto di incidenti diplomatici come il noto abbattimento di un Su-24 di Mosca da parte di un F-16 turco. Da ricordare, poi, la presenza nel teatro bellico di ulteriori e incalcolabili milizie fondate su base etnica, il cui schieramento è altrettanto eterogeneo, tra cui quelle assire e cristiane, alleate dei curdi, nonché quelle turcomanne, affiliate ai salafiti dell’Esercito della Conquista. Unico elemento di omogeneità, l’armamento, poiché praticamente tutti i ribelli siriani sono muniti di armi e di mezzi trafugati dagli arsenali governativi o sottratti al nemico; la fabbricazione è essenzialmente sovietica, sebbene siano state segnalate dotazioni anticarro occidentali fornite dalle potenze sunnite e, si dice, perfino vetusti Stg-44 tedeschi della Seconda Guerra Mondiale, esemplari del primo fucile d’assalto della Storia.

Nonostante lo scenario di frammentazione sopra descritto, in questi giorni si sta svolgendo, a Riyadh, un incontro tra la maggior parte, se non la totalità, delle compagini ribelli, tanto laiche quanto estremiste, volto a stabilire una linea politica comune da esporre nel mese di gennaio a Vienna, ove si svolgeranno gli agognati colloqui di pace che dovrebbero definire il futuro assetto della Siria. Occorrerà valutare, al termine di questo incontro dall’indipendenza ideologica nebulosa, se l’idea unitaria sarà quella di un Paese democratico, pluralista, laico e rispettoso delle minoranze o se, viceversa, sarà l’istituzione di un emirato islamista basato sull’applicazione più retriva della sharia e non troppo dissimile dal temuto Daesh, fortunatamente non invitato insieme ad Al-Nusra. Il luogo in cui si sta tenendo, tuttavia, così come la presenza di centinaia di forze salafite e l’assenza dei curdi, fanno pensare, purtroppo, a questa seconda ipotesi.

 

Marco D’Alonzo

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