Recensione di Humandroid (Chappie)
Alla sua uscita nelle sale in molti hanno paragonato Humandroid alla storia di Pinocchio, di Carlo Collodi, quasi come una pura e semplice lettura in chiave distopica e futuristica del piccolo ciocco di legno divenuto, per magia e con l’ausilio di una fata, animato e desideroso di diventare un ragazzo “vero”.
Sarà la presunzione, sarà l’attenzione che ho riposto nell’ultimo lungometraggio di Blomkamp, un regista che, benché se ne dicano tante, personalmente il sottoscritto adora e che ha affrontato la fantascienza da subito, al suo debutto, in modo alternativo, originale, attuale e terribilmente politico, schierandosi sempre dietro un’ottica quasi marxista e per questo malvista da più di una persona tra le fila dei critici, ma Chappie (e non l’insulso nome italiano probabilmente adoperato per facilitare lo spettatore medio, che chissà, avrebbe inconsciamente potuto associare il piccolo robot al lemma “chiappe” e non, per assonanza, al piccolo Wall•E della Pixar) resta un qualcosa che si discosta totalmente (o quasi) da tutte quelle che sono le tematiche affrontare dalla storia del noto scrittore Italiano.
Laddove, infatti, Pinocchio seguiva puramente un percorso di crescita, di maturazione e scoperta, del mondo e di se stesso, analizzando in modo relativo il rapporto con il padre in quanto creatore, mettendo da parte il concetto di essere stato “creato” da un essere umano, Chappie, segue tale cammino solo in determinati momenti, pur sempre però in una sfumatura di quello che rappresenta una vera apoteosi di alcune delle tematiche della fantascienza più pura ed appagante.
Perché, nella sua veste più semplice e nuda, l’opera del giovane regista Sud-Africano gode di una potenza visiva e metaforica, se non addirittura umana, capace di rivaleggiare o quanto meno sedere a fianco con i grandi film del passato, quali, ad esempio Blade Runner.
Vi è, non a caso, tutta una serie di dialoghi e situazioni in cui, pur attingendo proprio dai cult del genere, Chappie chiede a Deon, il suo creatore, un giovane ingegnere pieno di speranza, creatività e sogni (interpretato magnificamente da Dev Patel, sempre perfetto nei ruoli in cui gli viene chiesto di avere uno sguardo capace di andare oltre i limiti e i confini impostigli dalla società), che ha dato vita a dei robot (gli stessi a cui appartiene l’automa protagonista) nati solo ed esclusivamente per mettere fine ai tanti crimini della cittadina di Johannesbourg e controllare in tal modo la malavita assieme alle forze di polizia, se quest’ultimo sapesse, in cuor suo, cosa stesse facendo nell’elaborare una nuova intelligenza artificiale e perché in tal caso avesse deciso, proprio in quanto demiurgo, di inserirlo in un corpo “guasto” e non dargli una vita duratura e felice, scenari, dunque, che aprono le porte a tutta una serie di osservazioni che mettono in discussione la natura ed il divino a cui, parrebbe suggerire il regista, nemmeno questi due saprebbero dare una risposta.
Sebbene, Chappie, resti solamente un robot “bambino”, comportandosi quasi sempre come tale, costretto dalle circostanze a imparare i costumi degli umani, dotato di una coscienza e perciò mostrandosi senziente in tutto e per tutto come noi, a questi va il grande pregio di riportare alla luce, con sincerità e emozione, alcune delle domande che i replicanti ponevano nel capolavoro di Scott, quando sotto una scrosciante pioggia, sopra un tetto, Harrison Ford assisteva inerme ad un’altra forma di vita capace di andare ben oltre i programmi e le regole che dettavano la sua natura e chiedeva a gran voce e con insistenza delle risposte adeguate.
Perché Blomkamp va oltre il concetto di “dare la vita giusto o sbagliato?”, egli cerca l’umano anche dove, per antonomasia, non esiste, scava nella coscienza di noi tutti e degli “altri”, ce la mostra persino, sullo schermo di un computer, e ci fa intendere che le macchine sono “pericolose” non in quanto tali, non perché queste sono solo dell’ammassi di metallo e di fili, cortocircuiti o tasti su una schermata, ma perché possono essere migliori di noi, provare sentimenti più profondi di quanto noi si possa sentire dentro l’animo o provare nella nostra vita.
Humandroid mostra così un’altra faccia di quella fantascienza di alto livello, rivelando a noi tutti come film di questo tipo possano essere tremendamente attuali e possano spiazzare per la loro natura, mettendo in luce una faccia non solo di noi stessi, ma di quella “scienza”che oggi noi reputiamo fantastica, o persino utopica. Rimanendo comunque vittima di alcuni difetti e lungaggini, in special modo nella parte centrale, ma mai afflitto da sbavature tecniche o artistiche, dove persino Zimmer contribuisce con una colonna sonora curata e particolareggiata se ascoltata attentamente, Chappie è uno dei migliori film Sci-Fi dell’annata, e nel suo finale sa caricarsi di una potenza visiva paragonabile a quella di pochi, trascinando lo spettatore in un turbinio di combattimenti spettacolari, ma mai ridondanti o estremi.
Il film si spinge, proprio nelle scene conclusive, talmente oltre da affrontare una tematica già presa in considerazione da Cameron, riguardante il cambio del proprio corpo, in tal caso quando creatore e creato, per le circostanze drammatiche, infine si fondono, quasi a voler condividere una sola coscienza, il primo diventa così figlio a sua volta di quello che lo ha messo alla luce, prestandosi, in tal modo, a tutta una serie di riflessioni, non solo umane e robotiche, ma persino religiose a cui, per i più attenti, Blomkamp fa una sottile critica, proprio nella figura del (vero) personaggio antagonista interpretato da Hugh Jackman.
E’ un percorso coerente e lineare quello di Neil Blomkamp, riscontrabile anche nel design e nei modellini, passato dal fare cortometraggi a mettere la firma su pellicole di grande impatto e spessore, scoperto da Peter Jackson nel 2009, che ha dato così modo di permettere al giovane regista di mostrarsi al mondo con un capolavoro degli anni 2000: District 9. E proprio come Jackson, James Cameron e tanti altri autori di vero Cinema, Neil ci offre sempre un piatto pieno di pietanze prelibate, per palati fini, ove è possibile, ogni volta, riconoscere la mano del regista, a cui piace raccontare storie nella sua terra natia, in quel Sud-Africa mai così degradato e affascinante, nei baracconi e nelle tendopoli, privo di buonismo e retorica, fino a farci toccare la bellezza dell’infinito o la semplicità dell’animo “umano” che si cela nel cuore di un automa senziente.
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