22 Novembre 2024

Recensione di Boyhood

“Un esperimento cinematografico magistralmente riuscito che somma con ispirata naturalezza tutti gli elementi che costellano la nostra vita innalzandosi come riflesso perfetto di essa”


Trama boyhood-locandina

La storia di una famiglia narrata in una prospettiva molto particolare: il film segue infatti in tempo reale la vita e la crescita di un ragazzino per dodici anni, dalla prima elementare fino alla fine della scuola, esaminando in particolare il suo rapporto con i genitori divorziati.

Recensione

Il 2014 è stato un anno particolarmente interessante dal punto di vista cinematografico ed al suo interno possiamo cercare e trovare pellicole di un certo valore capaci di rimanere impresse nell’immaginazione di chi le guarda e rivelarsi quali migliori lungometraggi dell’annata appena passata. Tra queste, tuttavia, ben poche, a loro volta potremmo etichettarle come memorabili, forti di una potenza narrativa e visiva senza pari, image2resizefiore all’occhiello dell’industria cinematografica recente, film indipendenti ma carichi di un grande potenziale artistico. Se ne è accorta, in parte, l’Academy, ma ancor prima noi, il pubblico che ha accolto con gran fervore lavori quali Grand Budapest Hotel, Birdman o in questo caso Boyhood.

L’ultimo lavoro di Richard Linklater, presentato ed osannato alla scorsa Mostra del Cinema di Berlino, conquistatore dell’Orso d’Argento quale miglior regista, è un esperimento riuscito che ha coinvolto per un decennio un numero considerevole di persone che con costanza hanno lavorato per tanti anni al progetto.

Se vi è infatti una cosa che il cinema riesce a fare è quella di enfatizzare in modo estremo un qualunque elemento, renderlo epica e suggestivo, dandogli a volte un rilievo tale da farlo apparire irreale, tanto da rimarcare ancora più profondamente quel solco che separa la settima arte dalla realtà, dimostrando che essa non è altro che una visione distorta, o uno specchio puramenteBOYHOOD - 2014 FILM STILL - Ellar Coltrane soggettivo, dei fatti che accadono nella vita di ognuno di noi. Linklater con Boyhood fa l’opposto di quanto detto finora, annientando la concezione di Cinema sia fisicamente che metaforicamente, mostrandoci una storia così complessa ed umana da diventare immediatamente un cristallino riflesso della realtà che ci circonda.


La fanciullezza, o adolescenza che dir si voglia, del giovane Mason è narrata con ingegnosa maestria, portata a raccontare per tutta la durata della pellicola una vita ordinaria e priva di eccessivi picchi emotivi, ove le gioie ed i dolori non sono mai veramente o particolarmente atroci o appaganti, ma che nel loro microcosmo vogliono innalzarsi quale modello genuino dell’esistenza umana e piccole soddisfazioni. Boyhood è dunque un film magnifico, sensibile e sincero che pur mostrando una cerca ambizione tra le righe, analizza in modo umile, quasi come un romanzo di formazione e dai tratti sociali, l’età che per antonomasia dovrebbe rappresentare il momento migliore di ogni boyhood2essere umano, ma che qui invece viene messa in scena come una continua ricerca di benessere ed una pacata voglia di serenità ricercata dai protagonisti in modo quasi apatico e sconsolato, fatta più di errori che di vittorie.

Eppure, dietro alle tante sfumature psicologiche, più o meno ben orchestrate e curate, la pellicola è un potente affresco non solo antropologico, ma anche politico dell’America degli anni 2000, di una nazione che passa dalla guerra in Iraq, alla campagna democratica di Obama che molte persone (persino nel Texas) hanno visto come leader ideale per combattere le scelte di un presidente, George W. Bush, che ha portato alla luce ed alla realizzazione un conflitto (il quale poi avrebbe coinvolto gran parte delle nazioni mondiali) che dietro ai tanti ideali patriottici, post 11 Settembre nascondeva, purtroppo, motivi puramente economici.

Un decennio, quello ormai da cinque anni concluso, fatto di numerosi eventi, qui raccolti e legati al giovane protagonista, visti talvolta dal suo punto di vista, a partire dall’arrivo nelle case dei videogiochi, alla saga di Harry Potter o l’entrata in scena di Steve Jobs e della sua Apple con i suoi Ipad e Mac. Per questo motivo, grazie ad una incessante e instancabile voglia di raccontare, Boyhood si presenta a noi tutti come un unicum perché se pur muovendo delle critiche di natura politica talvolta di tanto in tanto mescolate ad una ironia o ad una sana voglia di voler mostrare ciò ce di buono c’è a questo mondo, questi è oggi la pellicola (e non “una” pellicola) che raccoglie in modo perfetto gran parte delle sfumature e dei particolari degli ultimi anni della nostra storia, un prodotto che riesce a parlare in modo universale colpendo e centrando i punti giusti, capace di apparire come un boyhood-richard-linklaterpuzzle complesso, ma appagante ove ogni piccolo tassello trova perfettamente spazio all’interno del mosaico.

Tutto ciò, senza dubbio, è stato reso possibile grazie al cast, impegnato qui per ben 12 anni a fare, di anno in anno, un numero preciso di riprese, ove in esso è possibile cogliere i segni del tempo e della vecchiaia in modo, gioco forza, estremamente realistico e umano togliendo al Cinema, ancora una volta, quell’alone di mistero di cui molte volte ci fa vanto ed ci affascina, e conferendogli invece una luce di realtà e verosimiglianza assoluta. Assistere al progressivo naturale invecchiamento di Ethan Hawke e Patricia Arquette non fa che aumentare la credibilità del tutto, così come vedere la naturale crescita di Ellen Coltrane, rendendo il prodotto quasi un qualcosa dal taglio documentaristico, pur non riuscendo (volutamente) ad essere tale e rimanendo diretto in modo armonioso e mai invadente o eccessivamente pesante. Eppure Linklater ci parla anche attraverso i suoi e la musica, attraverso i numerosi “tormentoni estivi” ed i classici immortali dei Beatles, affiancando ad una storia umana anche un ritratto pop che Boyhood veste elegantemente.

Commento Finale 

Dodici anni di riprese, ecco cosa è stato questo film, ma tanto lavoro dietro alla macchina da presa alla fine, per quel che riguarda il sottoscritto, non può non essere ripagato con il massimo dei voti poiché l’impegno e la costanza di Richard Linklater è tanto esemplare ed unica da rappresentare una novità non solo dal punto di vista visivo, ma anche concettuale, rivelandosi sotto alcuni punti di vista una rivoluzione. Boyhood è in sé e per sé un grande esperimento, una prova, una scommessa ed al contempo, sopratutto, un azzardo che dopo un decennio tuttavia appareboyhood1 riuscito e vinto, perché di fronte ad una storia tanto semplice, e che parla in fondo di tutti noi, è un prodotto capace di saper andare affondo negli usi e costumi di un popolo, dandogli a questi anche una scintilla inedita, riciclando alcuni elementi dell’immaginario collettivo affiancandoli, però, ad una vicenda umana legata ad una famiglia imperfetta che vede una madre divorziata responsabile della vita dei suoi due figli. Boyhood per certi aspetti vuole cogliere il senso della nostra vita, che ci sussurra essere un attimo costante, che di tanto in tanto ci coglie, impreparati o meno, e ci invita a fare delle scelte, ma sotto un discorso puramente cinematografico Richard Linklater è riuscito a rompere le barriere del cinema, innalzando in tal modo la settima arte ad un livello che pochi nella loro carriera talvolta hanno raggiunto poiché raramente si assiste ad un film che riesca a parlare di noi tutti, ad essere tanto verosimile da apparire reale. Boyhood, infatti, non è solo un lungometraggio, è un alchimia di elementi, è il lavoro di un uomo durato ben dodici anni, che sa commuovere, emozionare, annoiare, divertire come ben poche cose riescono a fare, riuscendo a toccare il nostro animo come solo la vita vera sa fare.

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Claudio Fedele

Nato il 6 Febbraio 1993, residente a Livorno. Appassionato di Libri, Videogiochi, Arte e Film. Sostenitore del progetto Uninfonews e gran seguace della corrente dedita al Bunburysmo. Amante della buona musica e finto conoscitore di dipinti Pre-Raffaelliti.
Grande fan di: Stephen King, J.R.R. Tolkien, Wu Ming, J.K. Rowling, Charles Dickens e Peter Jackson.

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