Déjà vu
Beatrice Sensini
Massimo non aveva mai capito perché nessuno avesse ancora pensato a installare un fottuto lampione all’angolo di quelle due strade; una volta calato il sole, quei venti metri di percorso obbligato tra la biblioteca dell’università e casa sua avrebbero potuto celare anche il più squallido e senza scrupoli dei criminali. Ci pensava sempre, a un qualche figuro losco e con le braccia bucate nascosto nell’ombra con una mannaia, a una bambola assassina versione sado che, seppur dall’alto di tacchi di 15 centimetri, avrebbe sicuramente potuto correre più veloce di lui, col suo fisichetto da laureando che da troppo tempo non vede la luce del sole e lo zaino pieno di fotocopie, in buona parte inutili.
Anche quella sera pensò che un’ombra si sarebbe distaccata dall’ombra per venirgli contro, da un momento all’altro. Se lo avesse raccontato a sua mamma, probabilmente gli avrebbe detto che, almeno per il prossimo Natale, avrebbe evitato di regalargli un giallo.
Ma c’era effettivamente qualcuno che veniva dall’altra parte della strada, e portava qualcosa di molto pesante sulle spalle; Massimo si fece da parte e lasciò che quella figura incappucciata, con una borsa da palestra quasi più grossa di lei, lo superasse e continuasse a camminare a passo svelto. Una ragazza, almeno sembrava. Con le gambe lunghe e una tuta di lycra, il cappuccio tirato sulla testa e un’andatura svelta che tradiva una certa determinazione più che semplice fretta, e aveva qualcosa di assurdamente familiare: a Massimo diede quasi l’impressione di stare osservando la foto della casa dove aveva trascorso la sua infanzia, o che qualcuno gli avesse messo davanti una diapositiva che ripetesse a oltranza lo stesso déjà vu. Ma certo, era lei. Doveva essere lei. Elena.
L’essere umano che meno avesse capito in assoluto nei suoi ventitré anni di vita. Lo stesso affibbiarle una definizione gli causava non pochi problemi. Potevano definirsi ex due come loro, che ogni volta erano finiti insieme quasi per caso, il più delle volte in situazioni assurde, senza mai darsi appuntamento per la successiva? Loro, che “non erano tipi” da cena fuori, che per qualcosa in più di un anno, qualcosa in meno di due, si erano mandati messaggi a tutte le ore del giorno e della notte, comparendo per caso, scomparendo di proposito, a volte con rabbia, senza mai lasciarsi conoscere? Pensava di no.
Nemmeno amici, perche che amica è una che ti pianta una grana di due ore perché sei stato troppo gentile con la cameriera del bar, che amica è una che ti bacia di botto e senza nemmeno un sorriso di preavviso di fronte alla locandina del film più sanguinario uscito al cinema negli ultimi dieci anni? Una che se si ubriaca con te inizia a sfilarti i vestiti, che amica è se la aiuti?
Le sue gambe si attivarono prima del suo cervello, d’altronde era sempre andata così; prima che potesse rendersene conto, era già dietro di lei, e erano ricomparsi i lampioni, la strada, tutto era tornato al proprio posto, tutto si vedeva con chiarezza. Ora riconosceva anche le scarpe, delle scarpette da ginnastica con i lacci fluo per cui una volta l’aveva presa in giro. Riconosceva il modo di camminare, con una mano nella tasca, tenendo bloccata la borsa col gomito; l’altra mano probabilmente stringeva il telefono e vagava inquieta alla ricerca della canzone giusta, perché lei non faceva mai cento metri senza musica nelle orecchie. Andava verso il centro. Massimo si chiese se avesse ricominciato a frequentare il gruppo, il bar. Lui non ce l’aveva ancora fatta. Lo studio, gli impegni, poi ultimamente si vedeva molto di più coi colleghi di università che non con gli amici di un tempo. Oltre al fatto che il pensiero di ritrovarsi di fronte a lei gli toglieva il respiro.
Però stava continuando a camminare, a seguirla. Si chiese distrattamente se in quel caso si potesse parlare di stalking, ma forse non era la serata giusta per le definizioni. Gli sembrò assurdo sentirsi di nuovo a quel punto, sentirsi di nuovo il cuore in gola, dopo mesi in cui era riuscito a pensare a lei il minimo indispensabile per poter raccontare a se stesso di avere ancora un po’ di orgoglio. Non era neppure mai finito, il qualcosa a cui non avrebbe saputo dare un nome. Nel momento in cui le aveva mandato l’ultimo messaggio non si era reso conto che sarebbe stato l’ultimo.
Non si erano più cercati, non si erano più neanche trovati per caso. Non aveva dovuto fare particolare fatica per evitarla, non frequentavano più gli stessi ambienti.
Camminava. Gli venne incontro un ragazzo indiano con cui spesso aveva chiacchierato nella pausa caffè tra le ore di studio, che di giorno bazzicava l’università e di sera vendeva le rose. Ne comprò una senza starci a pensare e continuò a camminare. Che cosa stupida. Non le sarebbe piaciuta, sicuramente non era tipo nemmeno da fiori. Pensò di buttarla nel primo cestino, poi ci ripensò, la tenne per un po’ tra le mani senza sapere che fare e alla fine la infilò nella giacca.
L’aveva quasi persa. Accelerò il passo. Cominciò a realizzare che a un certo punto avrebbe dovuto guardarla in faccia; avrebbe dovuto fornire una spiegazione al suo trovarsi sette metri dietro di lei e averla seguita silenziosamente per mezza città. Sentì il panico afferrargli lo stomaco e risalire lentamente. Selezionò i sei o sette insulti peggiori che conoscesse e se li affibbiò tutti, uno dopo l’altro.
Cosa stava facendo? E soprattutto, perché? Sapeva già come sarebbe andata, era un treno che gli era già passato davanti una mezza dozzina di volte; un film che non solo aveva già visto, ma del quale avrebbe anche potuto ripetere le battute a memoria. Di quello e dell’ultimo de Il Signore degli Anelli.
Per il resto, non aveva una grande memoria: dimenticava quasi tutto, ma gli restavano impressi i volti. In quel momento aveva una decina di Elene di fronte, come se invece di vedere quella schiena ritta, quel borsone gigante, quelle gambe snelle, potesse vederla ridere, aggrottare la fronte, alzare gli occhi al cielo, fare quell’espressione esasperata che riusciva sempre a mandarlo in paranoia.
Bel casino, si disse. E continuò a camminare. La vide svoltare in un vicolo e ci si infilò dentro anche lui, rischiando di venire investito da una bici. Chiese scusa in silenzio, con una mano alzata.
E poi fu come svegliarsi all’improvviso, come vedere chiaramente una stanza fino a un attimo prima avvolta nel fumo. Si bloccò, le gambe sembrarono ancorarsi ai sampietrini e diventare all’improvviso molto più pesanti. Capì che non sarebbe andato più avanti di così. Vide il borsone scomparire dietro un angolo e non fece niente. Si sentiva stanco.
Pensò che non avrebbe retto a un altro sorriso stiracchiato, a un altro ciao insieme di saluto e di arrivederci. Pensò che vedere una qualsiasi di quelle dieci Elene che gli affollavano la mente sarebbe stata la cosa più bella del mondo, ma allo stesso tempo avrebbe fatto male, come sempre. E ne aveva abbastanza.
Pensò ad una ragazza del suo corso, che da un paio di giorni aveva iniziato a sedersi con i suoi amici, e aveva un bel viso e una frase di una canzone scritta a pennarello sullo zaino, il che, truzzata a parte, era pur sempre una garanzia, perché la canzone era Losing my religion dei R.E.M. Avrebbe potuto chiederle di prendere una birra, un giorno o l’altro. E si chiese quante cazzate si sarebbe raccontato in quel caso, e se fosse giusto.
Andò a sedersi su una panchina, si passò le mani sul volto, tra i capelli. Rivolse un mezzo sorriso senza nessun particolare motivo a una vecchietta, che gli restituì uno sguardo perplesso. Rise tra sé guardando il cielo che diventava sempre più buio, pensando a quando lei gli aveva dato del capitalista, con un tono indignato abbastanza esagerato per la situazione. Non si ricordava neanche il perché.
Si alzò solo quando il suo stomaco gli ricordò, brontolando con discrezione, che dall’ultima merendina presa alla macchinetta della biblioteca erano passate almeno quattro ore. Si diresse verso casa.
A quell’ora si faceva aperitivo e i bar sulla strada erano tutti illuminati. Decine di studenti si affollavano attorno a decine di spritz e bicchieri di prosecco. Pensò alla sua tesi ancora tutta da scrivere e, come spesso gli accadeva ultimamente, gli sembrò che tutto stesse perdendo di senso.
Poi vide una borsa da palestra poggiata accanto a uno dei tavolini all’aperto. Alzò lo sguardo prima di poterselo impedire. E si vide di fronte una ragazza con la testa piena di ricci, con un bel sorriso, una sigaretta in una mano, un drink nell’altra. Indossava una tuta di lycra. Aveva tirato giù il cappuccio. Parlava con un’amica e rideva. E non era Elena. Non era lei. Non c’entrava niente.
Per un po’ rimase a fissarla, perché l’aveva vista camminare come lei, e anche se le scarpe in realtà non erano quelle su cui avevano riso una volta, gli somigliavano molto, e era così assurdo e brutto e in qualche modo anche rassicurante, allo stesso tempo, che non fosse lei.
La fissò abbastanza a lungo da essere fissato a sua volta: uno sguardo gentile, ma inevitabilmente interrogativo. Si rese conto di aver tirato fuori la rosa dalla giacca e di averla tra le mani; per un momento, si vide con gli occhi della bella ragazza sconosciuta seduta a quel tavolo e si concesse un po’ di autoironia.
Abbozzò un sorriso. Le porse la rosa senza dire niente. Lei la prese, senza dire niente.
Si voltò di scatto e tornò a casa, con lo sguardo per aria, con lo stesso film in testa.
Beatrice Sensini è nata a Viterbo nel 1993 ed è attualmente studentessa di lettere classiche presso l’Università di Pisa. A chiunque, fino al 1997 circa, le abbia chiesto cosa avrebbe fatto da grande, ha risposto “la camionista”; a quelli arrivati dopo quella data, “la scrittrice”. Da qualche tempo si rende conto della pretenziosità di entrambe le risposte e si mantiene più sul generico, ma non ha ancora messo via tutti i sogni
Comments