Anno domini 2017, è ormai improrogabile iniziare a parlare anche in Italia del nostro personale ‘leave or remain’: un referendum che, visto l’inasprirsi dei toni di partiti ad alto consenso popolare, si presenta oggi più che mai prossimo.
Innanzitutto: il referendum si può fare?
L’art. 75 della nostra costituzione asserisce espressamente che non è ammesso un referendum abrogativo sulle leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, quindi un referendum sull’uscita dall’euro, figlio di un trattato internazionale, ad oggi è impossibile se non preceduto da una modifica dell’articolo 75.
La seconda strada percorribile sarebbe uscire totalmente dall’Unione Europea, così come è accaduto per la Gran Bretagna ma questo – sostengono molti tra cui anche Di Battista, una delle principali voci di questo referendum – potrebbe essere un grosso svantaggio per l’economia italiana.
La proposta più credibile arriva dal suddetto grillino che propone un referendum “di indirizzo”, volto a chiedere un parere non politicamente vincolante ma comunque forte testimonianza della volontà popolare anti-euro a cui Bruxelles non potrebbe più rimanere indifferente; anche per un referendum di questo tipo, non previsto dalla nostra costituzione, bisognerebbe in ogni caso raccogliere la maggioranza necessaria per proporre una legge costituzionale ad hoc come successe nel 1989 quando i cittadini italiani vennero consultati in merito all’affidamento al Parlamento europeo di poteri costituenti.
Ma andiamo a vedere cosa potrebbe accadere nel caso domani tornassimo ad avere una banca centrale che oltre ad essere banca delle banche stampi valuta nazionale.
Intanto è bene chiarire il concetto di moneta dato che di moneta parliamo.
Il concetto di moneta è ampissimo e la sua storia è lunga e poliedrica, ma per i fini a cui questo articolo mira è bene parlare della moneta in termini odierni . La moneta, emessa da una banca centrale che è tradizionalmente lo strumento di politica monetaria di un governo, è un “documento” rappresentante la promessa di pagamento da parte del suddetto. E, avendo base prettamente fiduciaria, il suo valore è dato dalla fiducia delle persone nella stabilità dello stato e quindi nella credibilità dell’emittente di quello che non è nient’altro che un titolo di debito senza scadenza e senza interessi.
Una moneta si deprezza quando una nazione accumula debiti commerciali e si apprezza, invece, quando la sua economia e il suo export crescono consentendo alle sue riserve valutarie di moneta straniera di crescere. Il valore di una moneta è dato quindi dal mercato: più una moneta è “acquistata” da altre monete, più il suo “prezzo” aumenterà.
La moneta è altresì un pratico strumento di pagamento e cristallizzazione di ricchezza che è andata storicamente sostituendosi negli scambi per praticità a beni e ricchezze reali. Quindi la quantità di moneta in circolazione in una nazione deve per forza di cose essere in equilibrio con la quantità di offerta di beni e servizi, corrispondendo ad una quantità reale di ricchezza, ad una reale dimensione di mercato.
L’offerta di moneta o meglio, la quantità di moneta in circolazione, viene tradizionalmente controllata dalla banca centrale tramite politiche monetarie in modo da essere commisurata e congruente alle necessità della relativa economia.
Quando un imprenditore americano acquista un prodotto giapponese deve prima acquistare yen (la valuta giapponese) pagandoli con dollari statunitensi secondo il cambio determinato dal mercato. Tutti i soldi di queste transazioni passano dalle ‘Camere di Commercio con l’estero’ delle due nazioni. Alla fine la nazione che avrà venduto più prodotti all’altra avrà un credito detenuto in banca centrale sotto forma dell’altrui valuta. Se l’America compra 100$ al Giappone e gli vende 80$, il Giappone avrà accumulato in banca centrale un credito di 20$ che userà per apprezzare la sua moneta. Nel cambio dollaro-yen, quest’ultimo avrà quindi acquisito punti.
Quando una moneta diventa più forte dell’altra, diventa più conveniente a chi la detiene in portafoglio comprare in economie che hanno una moneta più debole dove, quindi, la sua moneta (espressione di un mercato forte) può acquistare molta più valuta altrui (espressione di un mercato debole). Questo giochino però fa sì che la valuta forte tenda a spostarsi nelle economie deboli (dove i prezzi sono più convenienti) equilibrando in questo modo la concorrenza commerciale fra le nazioni. In più, le banche centrali nazionali possono anche decidere di regolare artificialmente i cambi a seconda delle esigenze economiche di un Paese.
Le monete nazionali e le politiche monetarie sono state pensate anche per quantomeno arginare la “concorrenza sleale” fra nazioni.
Quello che gli economisti anti-euro criticano alla moneta unica è lo squilibrio venuto a crearsi fra i vari Stati, dotando economie diverse di una stessa moneta il cui valore è una sorta di media delle loro potenze economiche. In questo modo la moneta, che dovrebbe essere uno strumento pensato su misura per ciascuna economia, perde la sua funzione cardine e costringe economie deboli ad una competizione durissima contro economie forti che, senza la possibilità di perseguire proprie linee di politica monetaria, avvertono tutto il contraccolpo di una lotta di questo tipo. Importanti evidenze scientifiche confermano questo, come lo studio di Dani Rodrik, che mette in evidenza come un tasso di cambio troppo forte freni la crescita, o come i dati che portano Claudio Borghi Aquilini, alfiere economico del Carroccio, a denunciare: “nel 2000/2001 c’era una quasi totale congruenza delle bilance dei pagamenti dei paesi europei. E’ impressionante vedere come dall’entrata in vigore dell’euro pochi paesi, prima fra tutti la Germania, si gonfiano e accrescono i loro surplus commerciali mentre tutti gli altri accumulano crescenti disavanzi”.
La Germania, insieme forse ai Paesi Bassi infatti, sono gli unici grandi vincitori dell’eurozona. Trovandosi ad essere l’economia più potente d’Europa (forte nel settore automobilistico, siderurgico, chimico, elettronico ma soprattutto nel terziario), lo squilibrio della moneta unica è andato tutto a suo vantaggio, rendendo i suoi prodotti, senza dubbio ottimi, più convenienti di quanto lo fossero prima, sia per i propri cittadini, sia per gli acquirenti esteri.
Ci sono però vari problemi da non sottovalutare con cui l’uscita dall’euro ci porterebbe a scontrarci.
Primo fra tutti è da ovviare il rischio di corsa agli sportelli, panico bancario e svalutazione dei risparmi
Se domani qualcuno ti venisse a dire che entro 10 giorni l’Italia tornerebbe ad una valuta nazionale, che per comodità verrebbe fissata con cambio 1:1 ma che, verosimilmente, svaluterebbe immediatamente del 40-50%, tu cercheresti in ogni modo di ritirare i tuoi risparmi da tutti depositi dove la valuta verrebbe cambiata in maniera forzosa, per poi andare a cambiarla a svalutazione avvenuta. In questo modo salveresti i tuoi risparmi da quel temutissimo meno 40-50%
Chiudere le banche sarebbe un disastro. Lasciando perdere i disordini sociali che si andrebbero a creare ci guadagnerebbe solo il risparmiatore beneficiario di un conto estero, e le manovre per il rientro di capitali di questi soggetti sarebbe molto difficile.
Tutto ciò è prevenibile semplicemente tramite un periodo transitorio di doppia circolazione monetaria. La raccolta bancaria (depositi e obbligazioni) rimarrebbe denominata in euro, mentre i pagamenti (stipendi e pensioni) verrebbero accreditati su nuovi conti in valuta locale. Entro il periodo di transizione (quando verosimilmente la svalutazione sarà già avvenuta) saranno ridenominati anche depositi e obbligazioni. Chiaramente gli impieghi bancari, come mutui e prestiti, sarebbero ridenominati da subito per evitare di scaricare su famiglie e imprese debiti insostenibili.
Lo Stato in tutto questo si deve far carico della differenza che la svalutazione opererà sui depositi e sulle obbligazioni. Una spesa certamente enorme, una scommessa che nel caso in cui non rimetta effettivamente in moto l’economia, potrebbe portare ad una pesantissima inflazione.
Un piccola dose di rischio, componente inescludibile di un grande investimento… ai posteri l’ardua sentenza.
Secondo problema: abbassamento salari reali
La svalutazione chiaramente alzerebbe il costo delle importazioni. Dato che l’Italia è una nazione povera di materie prime che basa tutta la sua industria sul bisogno di importarle per poi rielaborale e venderle a venti volte tanto, la svalutazione della valuta nazionale porterebbe ad un inflazione dovuta all’aumento di costi delle materie prime e quindi ad una riduzione del potere d’acquisto dei cittadini italiani. Gli anti euro sostengono, però, che un surplus di bilancia commerciale, che col passaggio alla lira e con la svalutazione che seguirebbe accrescerebbe, sarebbe sempre in valuta pregiata (dollari US in testa) con cui poter pagare l’import senza che si venga a creare inflazione.
E – dicono- anche si venisse a creare un po’ di inflazione, quindi di riduzione del potere d’acquisto, sarebbe sempre meglio della tremenda spirale deflattiva diffusa oggi in tutta Europa, che porta a contrarre gli investimenti e ad incentivare i risparmi. E, inoltre, l’aumento di competitività dato dalla svalutazione (Legge di Marshall- Lerner: ad ogni punto percentuale di svalutazione monetaria corrisponde un +1.7% di export), porterebbe ad un riduzione del tasso di disoccupazione e chiaramente l’avere un salario con un potere d’acquisto di –x% è sempre meglio che non averlo affatto.
Sempre Claudio Borghi propone come mossa contenitiva della riduzione dei salari reali la reintroduzione della scala mobile, uno strumento volto ad indicizzare automaticamente i salari in funzione dell’inflazione.
Va detto per onestà intellettuale che i dati empirici, perlomeno restando nel panorama storico italiano, danno pienamente ragione alla tesi anti-euro sopra citata. Se si guarda per esempio alla svalutazione del ’92 l’Italia svalutò rispetto al dollaro del 30% e rispetto al marco addirittura di 50 punti percentuali. Secondo la tesi pro euro ci saremmo dovuti aspettare un aumento dei prezzi della stessa portata, invece l’inflazione diminuì, passando da 5,28% del ’92 al 4,05% del ’94.
Aumento tassi d’interesse e instabilità del cambio
La cosa che potrebbe provocare grossi disastri -dicono gli europeisti- sarebbe l’amento vertiginoso dei tassi d’interesse all’indomani di un ipotetico ritorno ad una valuta nazionale. Succederebbe più o meno quello che è successo alla Russia quando ha svalutato a causa delle sanzioni: il tasso di sconto (il tasso d’interesse con cui una banca centrale presta soldi alle altre banche) è passato dal 10,5 al 17%. Quando la banca centrale appone un tasso di sconto di tale portata il costo generale del denaro per famiglie e imprese aumenta paurosamente fino a toccare tassi d’interesse del 25-30%. In condizioni del genere la crescita rischia di diventare stentata, l’inflazione troppo bassa e i consumi di contrarsi. Inoltre per contenere la svalutazione saremmo costretti ad alzare il rendimento sui nostri titoli di debito per renderli più appetibili moltiplicando per n volte il già enorme debito che pesa sulle nostre spalle.
In una nazione come l’Italia poi, estremamente soggetta al fluttuare dei prezzi del mercato, l’euro senza dubbio assicura una certa stabilità di cambio e permette ai risparmi di non svalutare, assorbendo bene i contraccolpi di shock esterni.
La risposta che danno gli anti euro a queste accuse è molto semplice: la Russia ha dovuto combattere l’inflazione e la svalutazione perché si trovava in una situazione di isolamento internazionale cosa che se noi mantenessimo il mercato libero non accadrebbe. Potremmo svalutare all’infinito, l’aumento del rendimento sui nostri titoli di debito sarebbe ampiamente ripagato dall’aumento di competitività della nostra produzione. Poi, putacaso fossimo costretti ad alzare il costo del denaro, il credit crunch che è scattato già dagli albori del 2008 avrebbe già di fatto reso prestiti e mutui meno accessibili, soprattutto in Italia dove i disoccupati difficilmente si caricano sulle spalle mutui trentennali, e dove alle aziende (poco produttive) raramente vengono prestati i soldi. Quindi l’aumento del costo del denaro sarebbe riequilibrato dall’aumento di fiducia nel mercato italiano che porterebbe le aziende a produrre e ad assumere di più, i consumatori a spendere e le banche a prestare con minori garanzie. Per di più l’euro, essendo una moneta senza governo, anche se protetta dalla svalutazione, ci lascia comunque soggetti a problemi di rating e rischio insolvenza, come nel caso Grecia. L’aumento dei tassi d’interesse? E’ già avvenuto –accusano gli euroscettici- e si chiama spred, o ancora, guardando un caso più eclatante: la Grecia tutt’ oggi, quando il peggio sembra scongiurato paga interessi al 13-14%. Quindi l’euro ti mette nella situazione in cui, le conseguenze nefaste di una svalutazione le prendi comunque (agenzie di rating che paventano la possibilità che tu non possa più essere un pagatore affidabile; spread, ecc.ecc.), le conseguenze che non prendi sono quelle positive di una svalutazione, ritrovandoti sempre nel portafoglio una moneta forte che rende conveniente per te comprare prodotti importati e ammazzare così la domanda interna.
Stabilità del cambio? Per quest’accusa gli euro scettici rispondono ancora che un surplus commerciale sarebbe sempre in valuta pregiata, quindi una svalutazione della valuta nazionale pagherebbe l’import con l’esponenziale aumentare dell’export e quindi delle riserve valutarie di moneta forte. Tutto sarebbe comunque in equilibrio, sempre nella rosea previsione che la teoria di Marshall- Lerner funzioni e che il prodotto italiano diventi effettivamente così richiesto.
continua…