Il 18 giugno di duecento anni fa veniva combattuta la battaglia di Waterloo, forse il fatto d’armi più conosciuto della storia.
Tutti noi conosciamo le cause e le conseguenze politiche dell’ultima impresa di Napoleone. Ma raramente viene dato il giusto peso all’aspetto militare dello scontro, che pure è così importante. Se è vero che dall’esito della battaglia è dipeso il futuro dell’Europa, è vero anche che quell’esito fu deciso dalla tattica e dalla strategia dei generali in campo, come dalla superiorità dei fucili rigati baker degli inglesi, contro i moschetti a canna liscia dei francesi. E’, quindi, corretto dedurre che le sorti del continente siano state decise da quei 180.000 soldati, per la maggior parte ragazzi appena arruolati, che combatterono quella gloriosa e terribile battaglia di metà giugno di duecento anni fa.
Gloriosa poiché, tutt’oggi, due secoli dopo, è ancora al centro della storiografia e vive nell’immaginario collettivo degli europei, che ne narrano le gesta dei protagonisti. Terribile perché 47.000 giovani persero la vita quel giorno. Chi per difendere gli ideali napoleonici, chi per porvi fine, furono tutti ugualmente vittime della Storia. Ingranaggi di un processo inarrestabile, più grande di loro.
La Genesi
Il ritorno di Napoleone dal suo esilio all’isola d’Elba, il primo marzo 1815, e la sua riconquista del trono imperiale, il 20 marzo, colsero di sorpresa le potenze europee, sedute attorno ai tavoli del Congresso di Vienna per decidere quale forma avrebbe avuto l’Europa post-napoleonica. Bonaparte, però, sapeva benissimo che, una volta superato lo sconcerto iniziale, i suoi nemici avrebbero reagito e che l’unica speranza che gli restava era di conseguire subito una grande vittoria militare per aprire un tavolo di trattativa con gli alleati. Per far questo l’imperatore mise su un esercito forte di ben 250.000 uomini, richiamando i veterani e inquadrando migliaia di giovani. Ma gli alleati sarebbero stati in grado di mettere in campo, per l’autunno, una forza complessiva di quasi un milione di soldati, troppi per poter sperare di vincerli in una guerra generale. Napoleone doveva così colpire presto e duramente per ottenere una vittoria che gli avrebbe consentito di raggiungere un accordo onorevole con il nemico.
L’obiettivo del colpo sarebbe stato il Belgio, dove erano concentrati un esercito anglo-olandese al comando del duca di Wellington e uno prussiano al comando del feldmaresciallo Blücher. Sconfiggendo questi nemici, N. avrebbe potuto anticipare l’offensiva che Austriaci e Russi, ancora in marcia verso ovest, avrebbero portato, attraverso il Reno, verso il cuore della Francia.
All’alba del 15 giugno le forze francesi attraversarono la frontiera con il Belgio e, alla sera, erano tra le città di Charleroi e Chatelet, mettendo così un cuneo tra Wellington e Blücher, nella speranza di affrontarli separatamente. Al mattino del 16 giugno Napoleone, alla guida del grosso dell’esercito, diede battaglia ai prussiani nei pressi di Ligny. Al maresciallo Ney, invece, il compito di impegnare gli inglesi vicino Quatre Bras. Quella che seguì fu una confusa doppia battaglia – che non ebbe termine prima del tramonto – e che l’imperatore francese non riuscì mai completamente a controllare. Alla fine però, seppur con difficoltà, entrambe le formazioni nemiche furono costrette alla ritirata.
Il comportamento di Napoleone, il giorno 17, resta uno dei temi di maggior discussione tra gli storici. Con i due eserciti nemici in rotta e su due linee divergenti, l’imperatore, invece di organizzare fin dalla nottata uno dei suoi implacabili inseguimenti, che in passato gli avevano assicurato vittorie decisive, temporeggiò. Cosa fosse successo e perché l’imperatore non sfruttò a dovere le vittorie, per quanto non decisive, non lo sapremo mai. Certamente la notte tra il 16 e il 17 giugno 1815 una buona parte delle possibilità di vittoria francesi svanì assieme alle truppe alleate che si ritiravano indisturbate. I fanti francesi bivaccarono così sotto una pioggia torrenziale per quasi tutta la giornata. Non sapevano che l’indomani si sarebbe combattuta l’ultima battaglia dell’epopea napoleonica.
La battaglia
Poco prima dell’alba del 18 giugno 1815 smise di piovere sui campi davanti al Mont Saint Jean e le truppe che si stavano svegliando, infreddolite dopo una notte passata nei bivacchi di fortuna, poterono per la prima volta vedere chiaramente lo schieramento dei propri nemici. Wellington aveva schierato i suoi 68.000 uomini in una posizione puramente difensiva lungo il crinale che tagliava la strada per Bruxelles, con gli avamposti nel castello di Hougoumont sulla destra e della fattoria dell’Haye Sainte al centro. Il piano di Napoleone, forte di 74.000 soldati, prevedeva un attacco secondario sulla sinistra, per impossessarsi del castello di Hougoumont e, da lì, minacciare il fianco destro di Wellington. Una volta che quest’ultimo avesse richiamato da quella parte le sue riserve, l’imperatore avrebbe sferrato l’attacco decisivo sul centro dello schieramento nemico.
Dalle ore 11, i fanti della divisione di Gerolamo Bonaparte, fratello minore dell’imperatore, attaccarono in forze il castello, senza mai riuscire a vincere la resistenza di un battaglione delle Coldstream Guards, trincerato all’interno. Gli attacchi si susseguirono per tutta la giornata senza successo, nonostante il sopraggiungere di un’altra divisione di fanteria francese. Napoleone fu così costretto ad attaccare il centro dello schieramento nemico, senza che questo fosse stato indebolito dall’attacco diversivo di Gerolamo.
Fatta preparare una batteria di ottanta cannoni, l’imperatore fece bombardare il centro e la sinistra britannica. I fanti di Wellington però, occultati fra il grano non falciato, i fossi, gli alberi e protetti dal fango, che impediva alle palle di cannone di rimbalzare sul terreno, subirono perdite ridotte. Alle 13.30, quattro divisioni francesi – circa 17.000 uomini – cominciarono la terribile scalata all’altura di Saint-Jean, capeggiate dal generale d’Erlon. Marciando a ranghi serrati, furono massacrate dal fuoco di fucileria, e, costrette a ripiegare, furono incalzate dai fanti scozzesi e dagli ussari di Wellington, che, nello slancio, raggiunsero le batterie di artiglieria francese. Il successo inglese fu però di breve durata, in quanto la cavalleria imperiale ricacciò indietro i nemici, infliggendo loro gravi perdite.
Gli eserciti furono quindi riportati quasi sulle posizioni di partenza e solo intorno alle ore 17 le divisioni francesi, riorganizzatesi, erano pronte a portare un nuovo attacco alla fattoria dell’Haye Sainte, diventata il centro della resistenza nemica. Il maresciallo Ney, interpretato un riposizionamento degli inglesi come una ritirata, lanciò alla carica la sua cavalleria pesante. Fu un gravissimo errore. I corazzieri ed i carabinieri, che per tre volte attaccarono il crinale, furono respinti dai soldati inglesi, posizionatisi in formazioni a “quadrato“. Fu un’ecatombe. I cavalieri, senza il supporto dei fanti e dell’artiglieria, furono falciati dal fuoco di fila dei britannici. Degli ottomila soldati francesi, chiamati in soccorso della cavalleria di Ney, più di millecinquecento furono uccisi in soli dieci minuti.
Alle 19, un Napoleone sempre più consapevole della gravità della situazione, tentò il tutto per tutto ed inviò il grosso delle forze contro il centro dello schieramento nemico. Dopo furibondi combattimenti, la fattoria dell’Haye Saint finalmente cadde e con essa il perno della difesa centrale di Wellington. Il duca si accinse a questo punto a diramare l’ordine di ritirata generale: i Francesi erano davvero ad un palmo dalla vittoria.
Nel frattempo però, i Prussiani di Blücher, sconfitti il 16 giugno a Ligny ed incalzati nella ritirata da un contingente francese guidato dal maresciallo Emmanuel de Grouchy, avevano avuto il tempo di riorganizzarsi e di convergere sul campo di battaglia in tempo per ribaltare le sorti dello scontro.
Le avanguardie prussiane, che precedevano il grosso delle forze di Blücher (circa 48.000 uomini), ingaggiarono i francesi sul lato destro del loro schieramento. Nel villaggio di Plancenoit, fulcro degli scontri franco-prussiani, i fanti scelti dell’imperatore cercarono di arginare la marea nemica. Ma Napoleone, che aveva dato ordine a de Grouchy di bloccare l’avanzata nemica, si trovava impreparato a fronteggiare un attacco così impetuoso. Drenando uomini dal fronte principale, fu costretto, verso le ore 20, ad impiegare la Guardia Imperiale – le migliori truppe della sua Grand Armée – contro la fanteria di Wellington. Questi, che era sul punto di ordinare la ritirata generale, con il sopraggiungere dei prussiani aveva ricompattato le fila del suo esercito e preparato i propri soldati all’arrivo dell’invincibile Guardia, consapevole che, resistendo fino alla sera, avrebbe conseguito una vittoria impensabile fino a qualche ora prima.
Appena millecinquecento soldati inglesi, appostati in attesa dell’ultimo attacco francese, riuscirono a infliggere pesanti perdite ai più di seimila granatieri d’elite di Napoleone. Il mito dell’invincibilità della Guardia si infranse contro la difesa inglese e lo shock tra le fila dell’esercito dell’imperatore fu tale che molti reparti ruppero le righe e, soverchiati dalle forze nemiche, si dattero alla fuga. Fu la fine, la sconfitta definitiva.
Per evitare l’accerchiamento Napoleone ordinò la ritirata, erano le 21 e la battaglia di Waterloo era definitivamente persa. L’imperatore andò a rinchiudersi nel quadrato del primo reggimento della Guardia, dove voleva cercare la morte sul campo, ma i suoi veterani glielo impedirono. Caricato a forza su una carrozza il loro imperatore, gli ultimi soldati di Napoleone rifiutarono la resa e si fecero massacrare dai cannoni prussiani che spararono a bruciapelo sui quadrati.
Alle 22 Blücher incontrò un Wellington ancora stupefatto di aver vinto la battaglia, alla Belle Alliance, la locanda che aveva ospitato lo stato maggiore dell’imperatore. I due generali avevano messo fine a venti anni di epopea napoleonica. Sul campo di battaglia giacevano 25.000 francesi e 22.000 alleati.
Le cause della sconfitta francese furono molteplici. Victor Hugo, testimone dell’evento storico, giustifica così la disfatta ne “i miserabili”: “Napoleone era stato denunciato nell’infinito e la sua caduta era decisa. Egli era d’ostacolo a Dio. Waterloo non è una battaglia; è il mutamento di fronte all’universo”.
La realtà è molto più complessa e alla base della sconfitta dell’imperatore ci sono cause più razionali. Alcune di queste posso essere comprese semplicemente: l’inesperienza dei fanti francesi, per lo più reclute (quasi un terzo delle loro perdite furono infatti vittime del fuoco amico); la stanchezza dell’imperatore, non più all’altezza della sua stessa fama; l’incompetenza di uno stato maggiore e di una logistica francese che non era più quello della vera Grand Armée; la superiorità delle armi in dotazione agli eserciti nemici, in particolare agli inglesi; la superiorità numerica dell’esercito anglo-prussiano ricongiunto, non arginato a suo tempo da de Grouchy; il talento dei generali alleati, che seppero resistere e reinventarsi; e, infine, l’avversità del clima. Le piogge torrenziali che precedettero lo scontro e il fango che ricoprì il campo di battaglia, resero inefficaci e lenti i cannoni dell’imperatore, tanto temuti dai nemici. Solo una forza incontrollabile come il clima poteva davvero mettere in ginocchio Bonaparte, imprimendo così una forte casualità agli eventi. Napoleone sperimentò personalmemte ciò che Machiavelli aveva scritto ne “Il Potere della Fortuna”: “Tuttavia, non volendo completamente cancellare il nostro libero arbitrio, credo che si possa attribuire alla fortuna – al destino – la metà delle nostre azioni, mentre l’altra metà circa dipende da noi”.
Le Conseguenze
La sconfitta di Waterloo mise fine all’avventura napoleonica: l’imperatore si consegnò agli inglesi giorni dopo, sperando di avere dal nemico un trattamento onorevole. Ma l’Europa era stata troppo scossa dal pericolo napoleonico, stavolta per Bonaparte non ci sarebbe stata una nuova isola d’Elba da cui fuggire. Gli Inglesi lo inviarono, a bordo della nave da guerra Bellerophon, nella lontana isola di Sant’Elena, nel mezzo dell’Atlantico. Qui l’imperatore morirà il 5 maggio del 1821. Morirà su un’isola, lui che era nato su un’altra isola, la Corsica. Morirà solo, lui che aveva conquistato il favore di tanti popoli d’Europa.
La sconfitta di Napoleone segna il tramonto dell’impero, la fine di un’epopea che per vent’anni aveva insanguinato l’Europa, ma aveva anche contribuito a diffondere le idee di uguaglianza e di libertà nate con la Rivoluzione francese. Ma l’eredità napoleonica e quella rivoluzionaria non andarono perdute. Tra gli uomini che diedero la vita ai movimenti liberali, che si opponevano alla restaurazione voluta da monarchi europei, furono sempre in prima linea i veterani della Grand Armée che trasferirono alle generazioni successive il mito e gli ideali che, pur tra mille contraddizioni, avevano segnato quegli anni gloriosi e terribili.
Lamberto Frontera
[Fonti: La Storia, Le grandi Battaglie (La biblioteca di Repubblica); Battaglie, le 100 grandi battaglie della storia (Giunti); Guerre e battaglie, grandi battaglie (Mondadori)]
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