Con 317 seggi su 550 conquistati e con il principale rivale, il partito kemalista repubblicano CHP, staccato di quasi venticinque punti percentuali, l’AKP di Recep Tayyep Erdogan e del suo braccio destro Ahmet Davutoglu ha letteralmente trionfato nelle consultazioni elettorali turche del 1 novembre. La scelta da parte dell’attuale presidente di ricorrere ad elezioni anticipate, dopo l’esito incerto delle precedenti, ha pagato con il raggiungimento della maggioranza assoluta in seno alla Grande Assemblea Nazionale, un risultato che gli permetterà di formare un governo monocolore, ma non, seppur con uno scarto minimo di seggi rispetto a quelli necessari, di apportare modifiche presidenzialistiche alla costituzione; riforme, queste ultime, che, se attuate, trasformerebbero de facto la corrente figura del presidente in quella di un raìs.
In quest’ultimo teatro, il governo di Ankara non ha mai nascosto di appoggiare, di rifornire e, addirittura, di addestrare entro i propri confini formazioni paramilitari dall’estrazione più disparata, seppur prevalentemente islamista, tutte accomunate dal loro obiettivo finale, ovvero rovesciare con le armi il regime alawita del raìs di Damasco, Bashar Al-Assad. A ciò si aggiunga un rapporto storicamente ambiguo con l’autoproclamato Stato Islamico, ora appoggiato in ottica anti-curda, indirettamente e non, ora addirittura bombardato, come è accaduto, ad esempio, in concomitanza con l’apertura dei seggi elettorali. L’impressione è che il trionfo alle elezioni porterà Erdogan ad accentuare il suo interventismo in Siria, così da colpire le locali basi del PKK, con cui il conflitto è ricominciato a luglio dopo due anni di tregua, e da spingere ulteriormente per l’instaurazione a Damasco di un governo islamico sunnita, con l’acquiescenza, in questo caso, per non dire con il beneplacito, delle monarchie petrolifere del Golfo, anch’esse ostili al regime di Assad e ai suoi alleati, su tutti l’Iran.
Indubbiamente, l’adozione di una politica estera maggiormente “aggressiva” ed espansionista metterà Erdogan in cattiva luce presso i suoi partner occidentali e lo spingerà a ricercare compromessi con questi ultimi, in particolare con l’Unione Europea. Da non sottovalutare, in questo contesto, la spinosa questione dei migranti, i quali, ormai da diversi mesi, stanno percorrendo a decine di migliaia la cosiddetta “rotta balcanica” per l’Europa, la cui porta è proprio la Turchia. Sembrerebbe plausibile ipotizzare la promessa da parte di Ankara di maggiori controlli alle frontiere volti ad arginare l’epocale flusso di rifugiati, possibilità, questa, già prospettata in un vertice bilaterale con Angela Merkel, in cambio di un’autorizzazione o di un placet ad intensificare le operazioni militari contro il PKK. Sarebbe quantomeno auspicabile che l’Occidente, Stati Uniti e Nato in primis, imponessero al tavolo delle trattative un coinvolgimento turco maggiormente attivo nella coalizione internazionale contro l’Isis, anche includendolo, se necessario, in un’estensione dei raid aerei sulle postazioni curde, cosa che, peraltro, già avviene.
Nel complesso, appare evidente come, in seguito alla granitica affermazione di Erdogan e del suo AKP in Turchia, la situazione geopolitica dell’area, lungi dal migliorare, potrà solo complicarsi ulteriormente, con conseguenze disastrose per un Occidente sempre più minacciato.
Marco D’Alonzo